Hola hola hola.
Eccoci a una nuova uscita in notturna della tua newsletter del cuore.
Inutile nasconderci che sto scrivendo anche questa puntata (come la scorsa) di notte, e non una notte qualsiasi, bensì quella prima degli esami: record assoluto di "fallo all'ultimo" per celebrare insieme a te 10 sabati trascorsi a trastullarci fra titoli, nuove uscite, ricchi premi e cotillon. Esulta insieme a me!
Probabilmente non riuscirò a domare tutti gli errori, le ripetizioni e le castronerie che dovessero uscire da questa tastiera, eppure non posso esimermi dal tentare di fare del mio meglio e pubblicare a tutti i costi la recensione di oggi, specialmente dopo aver visto i risultati del sondaggio che ho fatto venerdì mattina in una storia su Instagram.
La domanda era se, «data la mia situa...», oggi sarebbe uscito Librini. Come foto informativa, una me sfatta sul divano con due figli abbarbicati addosso, di cui uno di pochi giorni; ora locale 5:30 del mattino.
Il 56%, magnanimo, ha risposto "Spero di sì ma, se non ce la fai, te quiero igual": grazie, miei cari, vi voglio bene anch'io.
Il 33% ha risposto "Vabbè, chiaro che no!": questa percentuale dev'essere largamente composta da neo mamme stremate o madri più attempate e lassiste che consigliano il riposo eterno e giustificano qualsivoglia inadempienza, birichine.
Ben l'11%, infine, ha risposto "Hey, non ci provare...!": è per questa fetta di pubblico che, spronata e intimorita, mi sono versata in un bicchiere da cocktail una buona dose di latte freddo e ho aperto il barattolo di crema di nocciole e cacao per farmi compagnia e darmi la forza di arrivare al termine di queste righe, in un orario in cui anche l'ultimo grillo ha gettato la spugna e ha smesso di frinire.
Sarò davvero breve, questa volta. Mi auguro anche intensa.
Anche se oramai lo sai meglio di me, ecco qui cosa troverai in ordine sparso nelle "righe" che seguiranno.
In forma di testo:
Titolo
Autore
Editore
Numero di pagine
Prezzo
La mia attesissima ed irrinunciabile nonché per nulla esaustiva mini recensione
Espressioni, frasi o brani che mi sono piaciuti e potrebbero strabiliare anche te
In immagini:
La foto un po' bellina della copertina e una banalissima della quarta di copertina, del retro
La seconda e la terza di copertina, ovvero l'aletta anteriore e quella posteriore
La prima pagina, per poter leggere l'incipit e valutare l'impaginazione
Dediche e/o citazioni iniziali scritte bene e degne di nota
Il libro in mano, per saggiarne l'ingombro
Adesso sì.
Poverina è uno di quei libri-bell'oggetto con copertina da urlo che non puoi lasciare sullo scaffale di una libreria senza degnarlo neanche di uno sguardo. E così conosco per la prima volta Blackie Edizioni, una casa editrice indipendente che mi sta simpatica e ha in catalogo svariati titoli sfiziosi. Dai un'occhiata.
Poverina è la storia vera di una ragazza di 34 anni alla quale improvvisamente viene un ictus: lei all'inizio lo scambia per un attacco di panico e prova a metterci una pezza prendendo uno Xanax, che risulta ovviamente acqua fresca contro un'emiparesi di tutto il corpo provocata da un'emorragia cerebrale che la costringerà in un letto di ospedale per un mese e mezzo e poi a una lenta riabilitazione per molti mesi a venire.
Poverina è il racconto simpatico, un po' volgare, disincantato e molto sincero delle pene, le paure, le assurdità vissute durante un'esperienza di cui normalmente siamo abituati a sentir parlare con un velo di dramma e terrore. Non questa volta. Già, perché Chiara Galeazzi è giovane e quindi il nutrito gruppo di medici, oss, infermieri, fisioterapisti che incontra durante la sua (dis)avventura non finisce di ripeterle che è fortunata ad aver avuto un ictus alla sua età.
Attorno a questa idiozia si snodano tutti i racconti del perché e del per come della malattia della scrittrice-protagonista: entriamo con lei in ospedale, assistiamo ai colloqui con medici spesso davvero poco empatici e attraverso la sua voce squillante ci facciamo un'idea abbastanza precisa eppur "leggera" della malattia e della fatica e pazienza necessarie per recuperare. In effetti, lungo tutto il libro, la ragazza piange molto, moltissimo, piange sempre, un po' perché soffre d'ansia un po' perché ne ha tutte le ragioni ma la narrazione di questi barili di acqua salata versati senza pudori è esilarante, simpatica, auto ironica e la si legge come un lungo messaggio di WathsApp inviato dall'amica un po' cazzara.
Tutto puzza di ospedale nel romanzo della Galeazzi, eppure l'odore non stordisce perché lei ha chiaramente indosso qualche goccia di Chanel N. 5.
L'ospedale sa essere un luogo molto familiare in cui si possono fare amicizia e sani pettegolezzi, nel quale al tempo stesso è facilissimo perdere la propria unicità (e dignità) diventando un tutt'uno con la malattia che ti affligge. Questo l'autrice, la protagonista, la paziente Chiara ce lo racconta in modo fresco, mai patetico e molto coraggioso rendendo la lettura di questo romanzo una piccola esperienza formativa e al tempo stesso un piacevole divertissement.
A proposito, se nome e cognome dell'autrice non ti suonano nuovi, è perché potresti aver sentito qualche volta il programma di intrattenimento Chiara, Frank e Ciccio su Radio DeeJay: io non l'ho mai ascoltato, ma dopo aver letto il suo libro l'ho inserito nella lista delle mie preferenze da ascoltare (non bastava infatti avere una lista delle preferenze da leggere: penso di avere otto vite e almeno 56 ore al giorno).
E se vuoi farti un'idea contemporaneamente sul libro e se valga o meno la pena ascoltare in radio la Galeazzi, puoi guardare quest'intervista in cui l'autrice presenta Poverina.
Devo dire che, per essere molto sul pezzo, avevo messo il libro nella borsa del parto e mi immaginavo l'avrei letto durante la mia felice breve degenza, accudita e coccolata, in compagnia del mio assonnatissimo neonato, in un letto alto super accessoriato in cui basta premere un pulsante perché lo schienale sollevi la tua schiena portandola all'inclinazione perfetta per consentirti di stare comoda per ore a leggere un libro. Ex post penso che, in questo caso, persino Chiara Galeazzi mi guarderebbe con tenerezza e non si tratterrebbe dall'esclamare: "Poverina". Poverina ad aver potuto concepire un pensiero tanto ingenuo.
Neanche a dire che non l'ho manco aperto, il libro, mentre mi trovavo nella camera fronte Danubio a scomodare svariati santi del Paradiso per via delle pene infinite, indescrivibili e anticostituzionali inerenti all'argomento parto.
Però gli ho fatto prendere, come si dice, aria, e l'ho portato in un ambiente consono all'argomento. Salvo poi averlo letto in momenti che avrei dovuto dedicare al sonno, ma chissenefrega: avrò tempo da vecchia per dormire.
Adesso sono giovane anch'io e spero che leggendo non mi prenda mai un coccolone o di certo, con la memoria che mi ritrovo, non ricorderei mai a che pagina sono arrivata.





Ho sottolineato...
pp. 14-16
Fino alla mattina del 17 ottobre 2021 mi sarei descritta come una roccia. Nessuna frattura, nessuna operazione, nessuna allergia, nessuna malattia congenita, no protesi, no valvole, no farmaci presi quotidianamente. A 18 anni avevo il fisico da modella per i manifesti propagandistici di un regime degli anni trenta, merito di una corporatura sana, robusta e presumibilmente feconda, anche se per gli standard degli anni 2000 ero una tizia che sarebbe stata più carina con qualche chilo in meno.
Quando a 23 anni iniziai a lavorare la situazione cambiò, non in maniera drammatica, ma tutti i pochi fastidi che avevo esplosero senza controllo. Avevo herpes labiale una volta al mese, il dolore alla cervicale era costante, la miopia aumentò insieme al consumo di antiacido e carbone attivo per i gonfiori, a un certo punto mi venne pure l'acne. Quando a 29 anni, invece di fare un figlio come consigliava il mio collega, decisi di aprire la partita iva, avrei potuto posare per un manifesto propagandistico sugli effetti deleteri del lavoro sulle donne.
I disturbi erano in ogni caso sciocchezze, potevo tenerli a bada con una scorta di aciclovir e il numero di un buon fisioterapista, e continuare così a compilare le schede che ti consegnano all'ingresso degli studi medici segnando «no» su tutto con la stessa soddisfazione con cui si schiacciano le bolle del pluriball.
Solo una volta avevo avuto a che fare con un pronto soccorso, dove finii a smaltire il mio primo attacco di panico. Non ricordo l'anno preciso, ma ricordo benissimo che era l'1 novembre: con un leggero hangover causato da una festa di Halloween, andai con il fidanzato che avevo al tempo a cercare qualcosa da mangiare e l'unico posto aperto vicino a casa era un kebabbaro. Mentre pranzavamo con delle crocchette di patate, iniziai a sentire un formicolio al braccio sinistro poi il cuore cercò di sfondare la cassa toracica, finché non cominciai a sentire l'incombente arrivo della morte. Arrivati al pronto soccorso dell'ospedale Fatebenefratelli di Milano, dissi all'infermiera: «Mi sembra che muoio» e scoppiai a piangere, terrorizzata dalla mia grammatica. L'infermiera si preoccupò così tanto per la mia condizione da consegnarmi un codice bianco senza neppure una parola. Restai lì due ore a piangere finché, sempre piangendo, capii che non ero morta, che il braccio stava al suo posto e il cuore pure. Quando un anno dopo iniziai psicoterapia, mi dissero che avevo un disturbo ansioso. Scoprii che potevo praticamente giustificare la maggior parte dei miei malesseri con l'ansia: l'herpes, i gonfiori addominali, le posture sbagliate. Con qualche passaggio in più potevo collegare l'ansia a problemi laterali, come congiuntiviti, carie, unghie incarnite. Oltretutto questa nuova diagnosi spiegava quel vezzo che avevo di piangere mentre andavo a lavoro, di piangere ogni volta che qualcuno alzava la voce di qualche decibel, di voler piangere tutte le volte che qualcuno voleva rivolgermi la parola, ipotizzando che sarebbe venuto a dirmi che ero una merda. Forse il primo pianto che feci appena uscita dall'utero era perché non mi sentivo all'altezza di essere nata.
Una volta stabilito che la causa dei miei mali era il mio modo pesantissimo di prendere la vita, potevo continuare a contare su una forte genetica e su una scarsa attrazione per i vizi, a parte un po' d'alcol e qualche sigaretta. Il mio unico vero vizio erano i lavori di merda. Quelli che pagano cifre ridicole, richiedendo molto più tempo di quello concordato, ma possono contare su superiori estremamente manipolatori che un giorno ti mandano un meme e l'altro si lamentano che non sei abbastanza presente nell'ufficio dove legalmente tu manco dovresti stare. Una volta mi venne una pitiriasi rosea di Gibert – ovvero un prurito con chiazze –, che una dermatologa disse sarebbe durata qualche mese, che avrei dovuto passare vestita di cotone bianco. Io, che preferivo diventare nullatenente piuttosto che vestirmi di bianco, curai la dermatite dando le dimissioni. In una settimana smisi di grattarmi. Ovviamente anche in questi casi era tutto riconducibile all'ansia, una diagnosi che spalmavo su tutto e che mi permetteva di evitare i medici. Io li detesto, con i loro camici, le loro lauree, il loro lamentarsi che dovrei andare da loro più spesso, ma guai che siano loro a invitarmi. Non c'è relazione più tossica di quella coi medici.
p. 82
Ovviamente anche io quando sento qualcuno che sta male penso «poverino», provo pietà e compassione, ma non mi verrebbe mai in mente di scrivere a quella persona, per di più senza un grande livello di confidenza, che è poverina per quello che le è successo. Si mente, si dice altro, si tiene per sé, si fanno quelle cose che hanno permesso all'essere umano di vivere in società. Gli si fa qualche domanda arzigogolata su un esame, si fa una battuta brillante o si manda un video di lontre che giocano con dei sassolini, si sta ad ascoltare quello che vuole dire. Non gli si dice «poverino».
pp. 84-85
Immaginai cosa sarebbe successo se i messaggi che avevo mandato quando ero al pronto soccorso me li avesse mandati una persona a me cara, e a rispondere ci fossi stata io:
[17:49, 18/10/2021] XY: «Senti, sono in ospedale perché pensavo di avere un attacco di panico e invece pare che ho un piccolo sanguinamento alla testa, ti tengo aggiornata, Madonna Santa»
[17:50, 18/10/2021] Chiara Galeazzi: «CHE COSA CAZZO DICIIIII»
Tolto il caps lock, avrei chiesto tutti i dettagli, avrei chiesto della gamba e del braccio. Avrei cercato «emorragia cerebrale» online sia in italiano che in inglese, avrei letto la parola «morte» cento volte e «death» cento altre. Avrei seguito lo spostamento dal pronto soccorso alla stroke unit e poi dalla stroke unit a neurologia. Avrei cercato informazioni su tutti gli esami a cui si sarebbe sottoposta, capendoci poco e niente ma preoccupandomi tantissimo. Avrei chiesto se c'era qualcosa da portare, o da comprare. Mi sarei incaricata dell'intrattenimento quotidiano con meme, video e altre stupidate, ma contemporaneamente avrei immaginato cose terribili che succedevano tra un messaggio e l'altro. Avrei letto significati sottintesi nei messaggi più allegri, immaginando sofferenze nascoste. Chissà il dolore! Chissà le omissioni! Mi sarei disperata per la paura di quello che ancora non si sapeva.
Poi, tra un messaggio e l'altro alla persona ospedalizzata, avrei pensato che se questa cosa dell'emorragia cerebrale fosse successa a me, be', non ce l'avrei mai fatta. Se fosse successo a me, avrei passato il tempo a fissare il muro pensando a quanto beffardo sia il destino. Avrei pianto ogni secondo fingendo nei messaggi agli amici per non farli preoccupare. Di certo non avrei passato il tempo a guardare Disney+ e podcast comici, non mi sarebbe neanche venuto in mente di farmi portare patch per le occhiaie e forbicine per sistemarmi la frangia con la mano funzionante, non sarei stata a fare rebus dopo la colazione e a farmi raccontare prima di cena dal personale sanitario i pettegolezzi del piano. Avrei fatto quello che le persone con problemi di salute devono fare: soffrire tutto il tempo.
«Aaaaaah!» «Uuuuuuh!» e altre vocali di lamento sarebbero state le mie uniche parole. Da quel giorno in poi non sarei stata più io, sarei stata un'emorragia cerebrale con le gambe, di cui una neanche funzionante.
Poi mi ricordai che l'emorragia effettivamente l'avevo avuta io. Mi sentii sollevata.
p. 106
Ripensavo ai video su YouTube delle ragazze che si svegliano alle 6 del mattino per andare in palestra e poi tornano a casa a bere liquidi verdi e poi leggono, meditano, scrivono sul diario – che cosa poi? Che sono andate in palestra e hanno bevuto liquidi verdi? –, infine vanno a dormire alle 10 di sera per rifare tutto uguale il giorno dopo. Nelle descrizioni dei video queste ragazze cantilenano quanto faccia bene questa routine, quanto le renda produttive – per produrre cosa? Liquidi verdi? – e quanto l'essere disciplinate aiuti a raggiungere i propri obiettivi. Mi chiedevo in che punto del video potesse arrivare l'ictus per mandare tutto questo jasonbatemanismo a puttane. Forse mentre scrivono il diario: «Caro diario, oggi ho fatto 3 serie da 20 di hip thrust e adesso mi formicola il braccisdfdrzds<».
p. 110
«Scusate ragazze, mi siedo un attimo qui che è tutto il pomeriggio che cammino».
«Si figuri» risposi. La «Signora» cominciò a fissarci.
«Ma, se posso, come mai siete qui?» chiese.
La mia regola per le interazioni sociali tra sconosciuti è la seguente: se ponendo una domanda ci si sente di dover aggiungere «se posso», allora non va fatta. Ma non mi sembrava il caso di rispondere: «Cazzi nostri» a una signora che aveva deciso di dedicare il suo tempo a tenere alto il morale dei degenti. Guardai L., che roteò gli occhi così tanto che ipotizzai un nuovo ictus, e risposi per quel che riguardava me.
«Io sono qui perché ho avuto un'emorragia cerebrale che mi ha provocato un'emiparesi sul alto sinistro.»
«Anche io» disse L.
«Però ci stiamo rimettendo, non sappiamo quando smetterà di trovarci qui, ma ci sono passi avanti» aggiunsi sperando non volesse ulteriori informazioni.
«Oh, mi dispiace molto ragazze. Però vi capisco benissimo. Io una volta mi sono svegliata con un male alla cervicale che non riuscivo a muovermi. Sono rimasta bloccata a letto tutto il giorno» disse lei, impassibile, pronta a essere compatita da due trentenni con l'emiparesi.
pp. 115-116
«Quindi, mi racconti cos'è successo.»
Dissi tutto dall'inizio. Il formicolio, lo Xanax, il pronto soccorso, l'emorragia, la stroke unit, il sonno impossibile, le lacrime, l'ignoto, il fidanzato appena trasferito da Roma e solo nella nostra casa, l'odio dei No Vax, la fisioterapia, le pulsazioni, i possibili interventi, lo spavento di tutti, l'essere diventata una poverina e cominciare a sentirmici.
Lei, dopo la laurea magistrale, il tirocinio, l'esame di stato, l'iscrizione all'albo, e a spanne almeno una decina di anni sul campo, mi disse: «Be', però, se ci pensa, poteva andare peggio».
forse la magistrale era in luoghi comuni.
«Poteva anche andare meglio, se è per questo» risposi.
«Però si guardi attorno: ci sono persone che stanno molto peggio di lei» insistette.
Pensai al mio vicino di stanza: era un signore che aveva circa 60 anni, di origine albanese residente in Italia da più di vent'anni. Era anche lui un paziente di N. e spesso eravamo in palestra insieme. Riusciva a muovere le braccia, mentre le gambe non lo reggevano. Lamentava molti dolori, spesso causati dalla fretta con cui veniva messo sulla sedia a rotelle. Mi ci vedevo a piazzarmi sull'uscio della sua stanza a dirgli: «Ehi, grazie che stai così di merda, mi fasi sentire meglio!».
«Mi sembra una pessima idea» le dissi, «considerato che qualcuno là fuori sta usando me come metro di misura della sfiga per sentirsi meglio.»
«Però lei adesso deve pensare al presente.»
«Non mi sembra questo gran scenario il presente.»
«Deve avere pazienza, senza concentrarsi sul tempo.»
Cominciai a pensare che se le avessi strappato il camice e la mascherina di dosso, sotto ci avrei trovato un assistente vocale ad altezza umana che rispondeva ai comandi di qualcuno: «Alexa, consola un paziente con l'ictus».
«Certo: pensa che c'è qualcuno che sta peggio. Il tempo domani a Niguarda sarà sereno con una massima di 15 gradi.»
pp. 132-133
pp. 132-133
Ovviamente quei mocassini avevano abbondantemente superato l'essere uno «sfizio», erano diventati una missione. Sarebbero stati l'incarnazione della fine di un periodaccio e l'inizio di quella che non sarebbe stata la vita di prima, passata a lasciarsi dilaniare tra rispettare le aspettative altrui e i propri desideri, ma una nuova esistenza in cui ogni passo aveva un valore e un significato ben preciso verso questo grandissimo cazzo – scusate, non avevo ancora ben definito dove andassero questi passi.
p. 146
In quel periodo capii che la mia testa era davvero una stronza: prima mi aveva bloccato a letto per un mese e mezzo, poi mi aveva dato abbastanza libertà per comprarmi le scarpe dei miei sogni, e poi di nuovo mi aveva bloccato in casa a rosicare di non poterle mettere. ma io ero più furba, e le scarpe le avevo prese strette, così non le avrei indossate a prescindere. Ero il marito della barzelletta che si taglia il cazzo per fare dispetto alla moglie, notoriamente esempio di grande furbizia.
Poverina
Chiara Galeazzi
Blackie Edizioni
172 pp.
18,90 euro