Credo di aver vissuto più emozioni durante queste ultime due settimane che nei passati sei mesi.
Sarà il caldo, arrivato tutto d'un colpo, ad avermi dato un po’ alla testa. O magari il momento dell'anno, che con la fine delle scuole e l'avvicinarsi delle vacanze proietta vorticosamente verso nuove prospettive.
Ed è così che vai alla Festa di Fine Anno dell’asilo e ti emozioni per un "go go go, el mundo está de pié" mentre la creatura avanza — aprendo la fila, ovviamente — con un vestito a righine bianche e azzurre e una coroncina di fiori che ha voluto sistemarsi come collana; si siede su una panchetta confondendosi inconfondibile in mezzo a tutti i bambini della scuola e ti dà le spalle. Guarda al futuro, mentre tu sventoli il mazzolino di fiori che le hai portato per celebrare questa giornata importante; intanto sudi il vestito buono a causa dei 35 gradi e dell'emozione che ti incollano i capelli al collo come una ragnatela. Neanche la folata di vento ristora, perché hai avuto la malaugurata idea di usare un balsamo labbra che di non appiccicoso aveva solo la promessa e che come una calamita cattura capelli, fili elettrici e radici di alberi.
Mi son commossa alle lacrime per svariate cose, ultimamente: ad esempio, il mio piccolo pacifico Dante che chiama Abba per dire Papà e io vorrei dirgli che non avrebbe potuto scegliere nome più appropriato perché a me (e a Papà) gli ABBA fanno impazzire. E poi, sempre Dante che sta per compiere 1 anno, ma è grande e grosso (e forse saggio) come se dovesse cominciare a settembre le elementari.
A volte lo guardo un po' da lontano riempire il suo spazio in mezzo alla folla dei giardini, accanto alla fontanella, dove i ragazzini che sanno camminare e correre e riempire bottigliette e sciacquarsi i piedi e fare un catino con le mani per bere s'assiepano. E lui, che ancora è incerto sulle gambotte, si appoggia con una mano a qualche supporto e allunga il collo come una tartaruga per scrutare, sollevando un po’ il mento: li guarda attonito e allo stesso tempo pieno di mansueta curiosità, tutti quei bambini. Capita che un raggio di luce colpisca i suoi occhi trasparenti come una pozza di mare sardo, una di quelle in cui il sole brilla vivo sull'increspatura dell'acqua pulita e, appena sotto, è la sabbia chiara. Lui sa risplendere alla stessa semplice inconcepibile maniera.
Dopo un po' che lo fisso, sempre capita che mi cerchi con il suo sguardo sornione e, a rallentatore, trascorso qualche istante di indugio, sbocci un sorriso lento e romantico che gl'invade il faccino buono. Dante sembra un film. E io ci vivo dentro e lo trovo così intenso che vorrei dire al mondo eccolo lì, ma quant'è bello? guardatelo tutti. Sembra finto. Eppure no. È il mio tesoro pieno di luce.
A proposito di film, non mi vergogno ad ammettere che i nervi hanno ceduto anche alla proiezione di Io capitano, un film di Matteo Garrone che ha vinto 2 premi al Festival di Venezia e 7 David di Donatello, ha ricevuto 1 nomination agli Oscar, 1 nomination ai Golden Globe, 8 nomination ai premi David di Donatello e 2 nomination agli European Film Awards. Insomma, se non l'avessi visto, sarebbe ora di recuperare.
L'ho guardato in originale (wolof, la lingua del Senegal) sottotitolato in ungherese e c'è chi potrebbe pensare che piangevo perché non ci capivo un'acca; invece devo dire che la storia del viaggio di un paio di adolescenti che partono dall'Africa con indosso solo la maglietta sintetica di una squadra di calcio, un cappellino di lana fuori moda e un rotolino di soldi nascosto nelle viscere mi smuove le budella più profonde e me le ramazza di qua e di là, lasciandomi addosso un senso di vuoto e disgusto sempre imprevisto e ingestibile. Imprevisto e ingestibile perché uno pensa d'essersi abituato, ahimè, a questo tipo di storie, quelle dei barconi pieni di cristiani che all'alba di un giorno qualsiasi s'affacciano all'orizzonte delle nostre coste. Invece io no, non mi riesce di farci il callo a questa faccenda che la gente sia per caso indirizzata a una (dis)avventura simile, trattata come animale da macello, oggetto di violenze e torture, provando la paura, il terrore, il disagio, la vergogna, temendo la morte, avendo sete, fame, desiderio di lavarsi, di dormire al sicuro, sentendo la mancanza di casa, perdendo gli amici. Oppure non sia destinata a questo, come me, che son nata nella parte di mondo più fortunata, in un Paese dal quale posso uscire e rientrare senza problemi (e mi pento e rammarico di tutte le volte in cui lo dò e l'ho dato per scontato). Singhiozzante davanti alle atrocità cui devono far fronte Seydou e Moussa, i protagonisti di Io capitano, mi sono ripromessa che quest'estate mi ricoprirò di braccialetti e collanine e pareo e cavigliere e libri con storie autoctone che qualsiasi senegalese volesse provare a vendermi. Per sentirmi un secondo dopo la buona azione compiuta comunque, evidentemente, molto in difetto: di energia, entusiasmo, coraggio, fede.
Matteo Garrone ha fatto un film che vuol far piangere, quindi non è gran cosa che mi si sia sciolto il mascara waterproof. Fatto sta che dopo i titoli di coda non ce l'ho fatta a proseguire la serata e mi sono dileguata velocemente verso casa, stringendomi nelle spalle e pensando ai miei bambini addormentati nei loro lettini puliti che non vedevo l'ora di andare a baciarmi tutti. E a quei ragazzi incontrati a Roma, quando insegnavo italiano ai rifugiati a Stazione Termini. Africani, afghani e poi neanche mi ricordo più. A tutte le loro storie e a quel modo un po' stentoreo e tenero di stare al mondo, un modo schivo e sfacciato allo stesso tempo di occupare lo spazio. Occhi penetranti, inquietanti: tutti mi hanno trafitto.
E poi uno di loro che un giorno mi disse, sotto a una luce giallastra, mentre bevevamo da un bicchierino di plastica uscito da una macchinetta ronzante: "Restare era morte certa; partire morte probabile. Tu cos'avresti fatto?". Vi ho voluto bene, a tutti. E vi ho dimenticati tutti. I vostri volti, i vostri nomi. Siete fusi in un'unica sola grande e sfocata immagine che ha segnato la mia vita.
Sono colpevole. E Garrone mi ha smascherata. Touché, Matteo.
Sarà pure per tutto questo rimestare di emozioni che c'ho messo più di una settimana a imbroccare il libro giusto da raccontarti in questa puntata di Librini. Ne ho aperti tre: quasi finito uno, diciamo dato per concluso; abbandonati poco dopo le prime 30-50 pagine gli altri due, perché sono devota al terzo comandamento di Pennac che sostiene che sia diritto insindacabile di un lettore quello di non finire un libro. Amen.
Alla fine mi sono diretta, chirurgica, al ripiano della libreria dove ho accatastato quei romanzi preziosi che attendono silenti il proprio turno, quando vado alla ricerca di un titolo salvagente, che mi venga in soccorso in momenti di stallo come quello descritto.
Se anche tu sei in un momento così, questo libro è per te.
Cosa abbiamo qui:
In formato di testo:
Titolo
Autore
Editore
Numero di pagine
Prezzo
La mia attesissima e irrinunciabile nonché per nulla esaustiva mini recensione
Espressioni, frasi o brani che mi sono piaciuti e potrebbero strabiliare anche te
In immagini:
La foto un po' bellina della copertina e una banalissima della quarta di copertina, del retro
La seconda e la terza di copertina, ovvero l'aletta anteriore e quella posteriore
La prima pagina, per poter leggere l'incipit e valutare l'impaginazione
Dediche e/o citazioni iniziali scritte bene e degne di nota
Il libro in mano, per saggiarne l'ingombro.
Prendendo in mano La Malnata ero certa non avrei sbagliato oltre. Dopo tre romanzi-tentativo, sono andata su uno sicuro, uno di quelli che sapevo non si sarebbe lasciato posare facilmente, uno di quelli dalle pagine veloci e dai personaggi fulminanti.
Tutto concorre in questo libro a rendermelo gradevole: la bella copertina, l'impaginazione amichevole, la storia al femminile fra due ragazzine in stile L'Amica Geniale, una prosa asciutta ma ricercata, il giusto numero di pagine. Ne bastano poche per sintonizzarsi ed entrare a sbirciare dalla finestra la vita di una qualunque famiglia della Monza del 1936, spiare le mosse dei personaggi, vederli intenti nelle loro quotidiane attività; imparare a conoscerli mentre escono di casa, aprono i negozi, fanno consegne, corrono giù al Lambro.
È fra i ciottoli umidi e lisci del fiume che prende le mosse il racconto dell'amicizia tra Maddalena e Francesca, due bambine di estrazione sociale diversa e che, sulla scia del racconto della Ferrante, diventano inseparabili e in qualche modo l'alter ego una dell'altra. Giudiziosa, composta e per bene è Francesca, la voce narrante del romanzo di Beatrice Salvioni, classe 1995, che scruta da lontano, con proibito interesse, la vita dei malnati, i ragazzini d'estrazione più popolare che si muovono liberi coi sandali rotti e le vesti sgualcite. Tra loro v'è Maddalena, la "diocenescampi", che fa succedere cose brutte e starle vicino è pericoloso e vietato. Le due ragazzine, attratte come calamite, s'incontrano e diventano inseparabili. Il legame e l'affetto profondi e inscalfibili narrati dalla voce ingenua e acerba, per questo così intensa, di una delle due sono il tessuto che danno spessore a tutta la storia.
Come anche nella saga di Elena Ferrante, se pur l'accento sembra essere posto sulla protagonista del titolo, qui Maddalena, lì Lila, in realtà quella forte e dominante voce narrante, che dice le emozioni, racconta le sensazioni, risulta poi il vero personaggio indimenticabile, quello più compiuto, che guadagna maggiormente nell'avere una doppia anima: da brave ragazze, Francesca e Lenù sanno smarginare, andare oltre il limite consentito, sanno cogliere l'estraneità delle loro anime opposte e sorelle e farne tesoro per evolvere. Non la stessa sorte è riservata alla Malnata e all'amica geniale.
Un espediente, questo, che non è sfuggito alla Salvioni che con questa narrazione ha conquistato il mercato letterario ancor prima che la sua storia uscisse in libreria e che ha visto le sue protagoniste inverate in pagine di carta tradotte in una trentina di lingue diverse. Un'operazione incredibile, riuscita con successo grazie alla sua agente Carmen Prestia, abile artefice di quella che definirei la moltiplicazione dei pesce_banana.
La scrittura di Beatrice Salvioni — oramai inutile sottolineare, al suo esordio letterario — è di quelle che ti fanno credere che sia facile scrivere una storia e mettere in piedi un libro. Molto descrittiva senza risultare ridondante; elegante e preziosa nella ricerca lessicale; misurata e scorrevole in quanto ai dialoghi. Si sente, si legge, che la Salvioni ha frequentato la Scuola Holden di Alessandro Baricco.
Mi accorgo di aver infilato, senza volere, uno dietro l'altro un paio di libri ambientati in un'Italia fascista del Nord. Romanzi scritti da donne con protagoniste delle donne alle quali ruota intorno un mondo sfidante e reso più ostile dalla situazione straordinaria della guerra. Due Einaudi che forse, a sentimento, si rivela essere la mia casa editrice preferita.
Trovo interessante e ispirante riscoprire attraverso piccole storie personali e personaggi straordinari la Storia delle nostre radici, le abitudini, la cultura di tutto un Paese, così frammentato com'è il nostro. E constatare come, comunque, lungo tutto lo Stivale, attraverso le epoche e le generazioni, certi sentimenti e certi patimenti da sempre oggetto di letteratura, la facciano sempre e ancora da padrone, senza stancare, né aver abituato i lettori, che con piacere e attesa si appassionano a tipi universali che, quando raccontati così sapientemente come fa la Salvioni, continuano a far breccia nei nostri cuori e a lasciarci un po' orfani all'ultima pagina.
In attesa di dare un volto a Maddalena, Francesca e al resto dei personaggi de La Malnata, che pare diventerà presto una serie tv, ti lascio con questo e la raccomandazione di non lasciarti sfuggire questo libro semplicemente molto bello.






Ho sottolineato…
pp. 52/53
Da una parte c'era la vita come la conoscevo, dall'altra come me la mostrava la Malnata. E quello che prima mi pareva giusto diventava deforme come il riflesso nell'acqua del lavabo quando ti sciacqui la faccia. Nel mondo della Malnata si gareggiava a farsi graffiare dai gatti e il dolore si leccava via insieme al sangue. Era un mondo in cui non si poteva giocare a far finta di essere qualcosa che non eri e si parlava coi maschi guardandoli negli occhi.
Lo osservavo ferma sull'orlo, il suo mondo, pronta a scivolarci dentro. E non vedevo l'ora di cadere.p. 64
C'era la «cucina economica» smaltata con il piano in ghisa e lo sportello per il fuoco. Appeso al muro, vicino al crocifisso e alla Madonna, un riquadro di latta con una piccola lavagna: «Cosa manca oggi?» Qualcuno aveva scritto sotto col gesso: «Tutto», e più sotto, in una grafia diversa: «Ma prima il latte». Agli angoli della credenza, tra il legno e il vetro, erano infilate vecchie foto e un rametto secco d'olivo.pp. 120‑121
Mi piaceva quando mi regalavano le coccarde con la bandiera e commentavano che avevo fatto un ottimo lavoro. Ma le cose più importanti continuavo a impararle da Maddalena: come far saltare di piatto i sassi nel fiume, perché i ragazzi andassero dietro alle femmine e come e come facessero i bambini a gonfiare a quel modo le pance delle madri prima di nascere. Le cose che mi spiegava la Malnata erano semplici e misteriose insieme, come la rotazione dei pianeti o la formazione delle montagne, ma ricoperte della vergogna e della reticenza dei grandi, che le rendevano proibite, clandestine, e per questo interessanti.
p. 123
Lei rise di quella risata che era come sandali sui sassip. 131
Quella notte cadde una pioggia rabbiosa e grigia, tanto fitta che impediva di vedere oltre i marciapiedi. Continuò senza fermarsi per giorni, il Lambro mugghiava e straripava dagli argini. L'acqua trascinava via gli alberi che crescevano sul bordo, invadeva le cantine spaccando casse di vino e vecchi mobili, strusciava sotto i ponti ingrossandosi di una poltiglia fangosa e nerastra, rigava di terra la pietra.
E io pensavo: «Ecco, dentro di me è così».
I giorni senza Maddalena furono squallidi e insensati. Giorni di vuoto che precipitavano l'uno nell'altro.
Non avevo mantenuto la promessa che avevo fatto all'Ernesto. Non ero stata capace di starle vicino. E adesso, senza i lei, ero mutilata. Ero nuda e senza difese.
Senza di lei il mio mondo moriva.p. 206
Mi avvicinai e le presi una mano, lei la strinse, se la portò alla fronte e la tenne lì a lungo, senza parlare. Quello era il genere di dolore che non si lasciava dire.p. 227
Tiziano sorrise. Mi guardò, si passò la lingua sui denti e disse: - Adesso vedi che ti faccio, a te -. Sentii la paura di essere sola in balia di un maschio. Era diversa da quella che mi aveva sempre fatto il signor Tresoldi. Quella veniva dalla pancia, come quando ti raccontano le storie di orchi e di streghe. La paura che mi faceva Tiziano veniva da tutto il corpo, era nera e vischiosa, s'insinuava ovunque.
Nicoletta Verna
I giorni di Vetro
Einaudi
434 pp.
20,00 euro