Librini #37 - Il fuoco che ti porti dentro
la newsletter sui libri che dura il tempo di un cappuccino
Ricordi quel momento in cui, al termine della scorsa puntata, in cui ti deliziavo sul legame che esiste tra la letteratura e le lavanderie a gettoni, t'avevo detto che sarebbe stato l'ultimo appuntamento estivo in versione light prima di ritornare al solito formato della newsletter?
Bene, mentivo.
Ma c'è da sottolineare che ancora non lo sapevo, quindi si può dire che sia sempre stata in buona fede.
Come per tutte le cose della vita da quando sono diventata madre, succede che carichi di aspettative certi momenti futuri che poi, giunti al dunque, vengono platealmente cassate dalle valanghe di realtà che sfuggono al mio controllo. Non importa quanto queste aspettative siano ragionevoli o esagerate. Che io immaginassi un rientro in cui mi sarebbe bastato un fine settimana per mettermi in pari con riordino della casa, lavatrici, check armadi, ripopolamento congelatore, decluttering stupidaggini dei bambini, approvvigionamento per il nuovo anno scolastico, manicure, pedicure, coiffeur, album delle foto delle vacanze, lavoretto cornicetta con i bastoncini del gelato e conchigliette raccolte al mare, menù settimanale, svariate to do list cartacee divise per argomento, brainstorming per nuove idee e progetti connessi a Librini... Sia che io auspicassi semplicemente a rispondere a qualche messaggio mentre una maschera in posa per 45 minuti potesse ammorbidire le mie punte sfibrate dal sole, il risultato non cambia. Perché, di base, non ci sarà comunque il tempo per farlo. In pace. E le cose non andranno come auspicato.
Dopo un'estate dedicata ai bambini, variegata di esperienze, incontri, latitudini e sbalzi sul livello del mare, un giorno non troppo lontano che però sembra già perso nell'iper spazio, siamo saliti su un aereo incredibilmente in orario e siamo tornati a casa nostra. Ed è con quasi tremore di dita che mi accingo a mantenere il mio patto con i lettori, consegnando alla rete la trentasettesima puntata di Librini, battendo incerta i polpastrelli sui tasti di un computer vero, seppur moribondo, seduta quasi composta a un tavolo degnamente illuminato.
Per star dietro alla vita, lo faccio di nuovo di notte, rodeada dal caos, appoggiando i gomiti un po' secchi su briciole varie e con un po' di puzza di wasabi misto edamame nell'aria, resti di una cena da coppie di genitori.
Nella pace della mia stanza preferita al centro della mia bella casa magiara, rifletto su quanto sia cambiata la mia vita negli ultimi quattro anni, da quando sono diventata Mamma.
Quando noi donne siam stanche e affogate dal tutto che ci compete e che c'incombe minacciosamente addosso, capita che si pensi (di più) a quando eravamo giovani, o più giovani, o almeno senza figli, o solo fidanzate, o appena uscite di casa, o al primo viaggio studio. La mente torna indietro con troppa facilità a periodi che sembrano appartenere a un'altra era geologica; eppure le sensazioni legate a una canzone, a quel tal bar, a una certa abitudine sono così vivide e vicine che non può non sorprendere una certa malinconia, mista a frustrazione e pure a un pochetto di senso di colpa nel pensare ai bei tempi andati.
Se è vero che con la sopraggiunta maturità se n'è andata una buona dose di patemi che parevano indistricabili, è pur vero che con la lente del tempo ciò sembra essere il primo vero segnale d'invecchiamento irreversibile: non avere più tanti cavoli sui quali macerarsi significa essere diventati adulti, aver detto ciao ciao, giovinezza. Se poi ci sono anche dei figli di mezzo, il processo sembra intensificarsi e velocizzarsi senza che il cambiamento abbia tempo di venire metabolizzato, assorbito, subito, accettato per sfinimento. Un tema col quale non faccio pace e del quale spesso sproloquio, come nella puntata #20 dedicata al romanzo Bestie.
Mentre rifletto sul mio stato di diversamente giovane, mamma assennata e un po' oberata che compila liste mentali, che poi diventano note sul cellulare e poi post-it sconclusionati fino a evolvere in fogli Excel per le più organizzate (come la mia amica Sara, quella famosa della puntata #29) oppure appunti compiuti e ordinati su quadernetti comprati ad hoc, penso alla madre descritta nel libro di Antonio Franchini, Angela, la vera genitrice dell'autore, e mi dico che ho un sereno gran margine di peggioramento prima di potermi definire colpevole in qualsiasi modo.
Praticamente, l’autore riempie 222 pagine per raccontare nel dettaglio l'essere aberrante che è stata sua madre durante l’intero arco della sua ignobile e inutile vita.
p. 134
Ho più di sessant'anni e ancora, quando litigo con Angela, mi adiro come da ragazzo, anzi peggio, perché adesso il mio è un livore nero, una rabbia densa e quintessenziale. L'affronto come lei aggrediva sua madre, nello stesso modo stridulo, irrancidito dal tempo, ma peggio di lei perché all'avversione generata dall'abitudine e dall'insofferenza io aggiungo il disprezzo intellettuale. Ne detesto il qualunquismo, il razzismo, il classismo, l'egoismo, l'opportunismo, il trasformismo, la mezza cultura peggiore dell'ignoranza, il rancore, il coacervo di mali nazionali che lei incarna in blocco, nessuno escluso, al punto da essermi convinto che se c'è una figura simbolo degli orrori dell'Italia, una creatura di carne e ossa che tutti li racchiude, questa è Angela, mia madre.
Raccontando della madre da giovane, di cosa le è piaciuto o dispiaciuto, facendole pronunciare monologhi in napoletano, ricchi di pensieri e parole scurrili, narrando delle sue fisse, delle sue aberrazioni, dei suoi rapporti con il mondo e con le persone, l'autore ricostruisce un quadro francamente inquietante di una donna che solo verso la fine della sua vita riesce forse a muovere un po' di pena perché viene descritta anche nella debolezza delle carni corrose dalla vecchiaia e dalle malattie.
p. 137
Quando la notte passo sotto le sue persiane abbassate già dalle sei del pomeriggio e vedo l'alone azzurro della televisione oltre le stecche, immagino il suo corpo circondato dai cuscini e steso di traverso mentre s'imbeve delle voci del mondo che si fondono con i ricordi della sua vita, e a quell'amalgama di dormiveglia aggiunge incubi e sogni, come il pannolone ricevuto gratuitamente grazie al cento per cento d'invalidità s'inzuppa di urina e resiste fin quando albeggia, garantendole perlomeno la tranquillità di non doversi alzare, e poi lo ritrovo buttato sul pavimento, avvolto in un sacchetto di plastica, malloppo bianco dietro la porta, residuo spugnoso delle sue vecchie reni, mentre i rifiuti della sua mente li serve a me insieme al caffè, e penso al mattino, a che liberazione, per l'umanità fragile, è la luce del giorno.
Un po' strega e detentrice di una vaga primordiale saggezza, il personaggio di Angela è talmente denigrato dalle parole del figlio che, sinceramente, leggere questo libro può provocare reale disagio in svariati momenti. In più d'una occasione m'è venuto in mente di lasciarlo da parte perché mette addosso una carica negativa che non reputo necessario sobbarcarmi. Tuttavia non ho potuto che concluderlo, e pure abbastanza speditamente, restando per tutte le oltre duecento pagine abbastanza spiazzata dalla fermezza del sentimento di spregio di Franchini nei confronti di sua madre.
L’elegia alla orribile persona che è stata la madre Angela, mi pare uno sforzo degno di nota e anche una sorta di omaggio involontario. Scrivere un intero libro per parlare malissimo della persona più fondamentale della vita di un essere umano non dev'essere un compito facile. Farlo con l'asciuttezza di sentimenti di questo autore mi sembra incredibile. In pochissime occasioni si lascia andare a commenti se non proprio positivi quanto meno non tanto adirati. Ed è in quegli snodi che ho trovato la spinta per leggere oltre.
Come quando racconta che ad Angela da sempre piaceva ballare.
p. 201
In realtà più volte nel nostro salone si è ballato, e Angela è stata felice e mi ha invitato con un semplice gesto di seduzione che avrei visto fare ad altre donne.
Chissà poi dopo che è successo, a lei, a noi, forse niente di speciale, solo l'ordinario disfacimento delle nostre vite.
Nonostante tutto il peggio che la madre sembra aver sempre riservato ad Antonio e alle sue sorelle, e al resto del limitato mondo che ha voluto conoscere, trapela la volontà di provare a rielaborare affinché il peggio elargito da questa donna possa servire per aprire qualche spiraglio di comprensione sul mondo delle relazioni famigliari. Unica speranza di risarcimento per diventare persone migliori e riscattare una genitrice da bocciare in toto.p. 182
Come fa una madre che ha sempre sbagliato tutto, ma tutto, a suscitare tanta devozione quando persone assai più decorose seminano risentimenti, incomprensioni, indifferenza a ogni passo? È davvero meglio essere una carogna con lampi di umanità piuttosto che una persona decente per conquistare l'affetto di chi ci sta vicino?
Eppure noi sappiamo che cos'è, in realtà, questo lungo, occulto bisogno dell'approvazione di un genitore, fosse pure un mostro, avvinto a noi più strettamente proprio in ragione della sua mostruosità; conosciamo questo senso d'inadeguatezza che non si placa, questa ricerca di un cenno di approvazione da parte di chi ci opprime...
Da madre, di nuovo, mi chiedo come si possa diventare un simile esempio di scempio per le proprie creature.
Da madre, appunto, spesso esausta e al limite delle forze e della pazienza, succede che mi senta niente e in colpa per essere insufficientemente preparata; perché tutto si può imparare, si potrebbe pagare per partecipare a corsi su qualsiasi cosa, tranne che per diventare bravi genitori, per non sbagliare con i nostri figli, per sapere sempre cosa fare, come prenderli, per decidere quale sia la via giusta, quale il limite oltre il quale è troppo o troppo poco qualcosa.
Solo accettando di vivere ogni giorno pienamente la relazione con quei piccoli pokémon in continua evoluzione, abbracciando gioie e disfatte quotidiane, mi pare non s'impari un bel niente, piuttosto si tenti di fare l'unica cosa davvero fondamentale: essere presenti, non lasciare che un giorno possano rinfacciarci di essere stati lasciati da soli. Insomma, stare loro sempre e comunque vicini, quando urlano e quando piangono, quando sembrano dei mostri posseduti, senza la pretesa di poter risolvere tutti i drammi; partecipare con nitida e umile gioia quando esultano e quando vincono, quando ci sembrano incantati angeli sbatti ciglia. Non perdersi nessun momento (o meno momenti possibili) della loro faticosa e strabiliante avventura del crescere e diventare grandi, adulti, maturi, anche loro vecchi.
p. 213
Passa 'a vita e nun ce n'accurgimmo...
Ma che ne ho saputo io di lei per tutti gli anni della mia adolescenza e giovinezza e della sua maturità, quando vivevo la vita mia non incrociando mai la sua se non per casuali collisioni?
Che ne sanno di noi i nostri figli quando non sono più i bambini con gli occhi rivolti a noi e non ancora gli adulti costretti a misurarsi con la nostra decadenza e fine?
Per lungo tempo non diamo vita che a fortuite eclissi, allineandoci una volta ogni tanto come pianeti adusi a orbitare da soli nello spazio.
Chi è la donna adulta, né ragazza né vecchia, che sorride dalle foto degli anni Settanta e Ottanta vestita di prendisole a fiori, di pantaloni scampanati, di abiti che non ricordo?
È mai stata passabilmente felice? Si è mai acquietata vicino al suo uomo per un ragionevole periodo di pace?
È forse questo il tempo della nostra pienezza, il momento buono che è sparito e non può tornare, ciò che ci fa soffrire perché ci lascia dentro la nostalgia della sua scomparsa e ci avvelena il presente con la rabbiosa rimembranza della nostra vita migliore?
Mentre scrivo queste righe, condivido la casa abituata a reggere solo le nostre quattro presenze, con altre sette persone, cari amici in visita che non vedevamo da qualche anno. Cinque di loro sono esserini la cui età sta abbondantemente sotto la decina di dita che loro stessi sanno contare in svariate lingue.
L'appartamento si è trasformato in una specie di accampamento: in ogni angolo ci sono oggetti dimenticati che non hanno niente a che fare l'uno con l'altro, vestiti, mutande, asciugamani, sandaletti, adesivi, tantissimi adesivi ovunque. In ogni stanza, allo stesso momento, si formano e sciamano nugoletti di loro, intenti a far cose, operosi come piccole api o formiche che trasportano briciole. Fanno cose indecifrabili, ciarlano fra loro parlando o emettendo i suoni che sanno, giocano insieme grandi e più piccini. È bellissimo cogliere questo effetto asilo che annulla noia e richieste e capricci.
Il primo giorno, qualcuno ha messo a Dante le ali da fatina di Azzurra: lui ci stava comodissimo mentre, molto seriosamente, analizzava pezzi di lego e mestoli della cucina, al contempo e li portava in giro per mostrarli a tutti.
Come durante un campo scout, hanno aperto tende in salotto, giocato tanto insieme, anche se c'è sempre qualcuno che fa qualcos'altro: un monopattino che sfreccia, una palla che rotola, un cavallino che dondola. Li ho spiati dalla cucina mentre preparavo torte, waffles, chili di pasta, merende: facevano finta di giocare all'ospedale, e poi alla famiglia. Ho origliato Azzurra dire: "Va bene, allora la mamma la faccio io. Se hai bisogno di qualcosa, chiedi a me, capito?". Il mio cuore s'è schiuso e una piccola calda lacrima di tenerezza mi ha ferita per sempre. Oramai, ogni qual volta sarò esasperata e sentirò il malsano irrefrenabile desidero di appenderla per i piedi giù dal balcone penserò a questa scena per calmarmi. E addolcirmi. Io sono per lei l'immagine di quel luogo sicuro in cui può permettersi di chiedere e avere fiducia che le sarà dato. È esattamente quello che vorrei lei scoprisse del mondo, per avere fiducia, non avere timore, saper chiedere, sentirsi accolta.
I bambini più piccolini imitano quelli più grandicelli; qualcuno inventa un gioco, dà il via a un'attività, e ognuno interpreta come può: tutto quel che ne esce è un enorme caos ma molto bello e trasudante fresca speranza.
Sono ricca di disegni; mi hanno dedicato molti disegni. Chissà se Franchini alla sua Angela avrà mai regalato un disegno. E chissà Angela come avrà vissuto davvero la sua vita certa che i sui figli l'hanno detestata dall’inizio alla fine.
Il solo pensarci m'attanaglia e mi spaura. Quindi, vigliaccamente, non esplorerò oltre, ma farò colazione con i resti di quel che lasceranno questi sette bambini di cui due sono miei. E io sono esausta e felice, stremata e grata e in questo circolo materno inconcludente e insanabile, tengo botta giorno per giorno e mi godo quel po' — bel po' — di Nutella, aperta ufficialmente per i bambini.
Buon ultimo cappuccino sabatino di Agosto.