Sul lato destro del bancone bianco della cucina, tra piante ad alberello di cui non conosco i nomi e accanto a un cesto di vimini che ho adibito a raccolta differenziata, troneggia un grande, veramente grosso vaso di vetro che ha la base di un calice e il corpo cilindrico di una betoniera trasparente. Ci tenevo dentro una candela, anch’essa sovradimensionata: eccessivo per cene romantiche ma un bel centrotavola per illuminare serate con gli amici.
Tant'è che una sera quella candela è finita; ci siamo trasferiti, il vaso è stato impacchettato e, avendo passato indenne il trasloco intercontinentale, una volta scartocciato è stato riposto nella vetrinetta azzurra di legno decapato che riceve sempre tanti complimenti e che avevo comprato per due soldi in Perù a un mercatino del modernariato.
Nel trasloco, inspiegabilmente, s'è persa la maniglia di foggia antica che rifiniva perfettamente l'armadio. Ogni volta che lo apro facendo scattare l'anta con le unghie, penso che dovrei occuparmi una volta per tutte di trovarne una adatta e fissarla a quei due buchini rimasti orfani. Ma la maniglia della porta della mia vetrinetta è ancora lì, mancante, dopo più di tre anni.
Mi pare che questo lassismo sia dovuto al fatto che si tratti di un dettaglio troppo marginale per scalare la ripida lista delle mie cose da fare. Ed è marginale solo grazie al fatto che, per via delle fattezze del mobile, quell'assenza non risulta uno schiaffo in pieno volto e concede al mio sguardo di percorre indisturbato lo spazio senza inciampare nell’imperfezione.
Il fatto che io sappia che manchi la maniglia al mio bel mobile è un piccolo detestabile carico mentale che m’impedisce di alleggerire la mia lista depennando questioni. Eppure da alcuni anni riesco ad aprire l’anta della vetrina per prendere o riporre piatti, sottobicchieri, tazzine, amari senza sentirmi disadattata. Succede di solito che per un istante brevissimo la mente invii un impulso di allarme al mio busto che sussulta e costringe la bocca a produrre un mugugnetto di scarso valore mentre apro l'anta: Ah già. A seconda dell’umore del momento, l’esclamazione che esce come un riflesso incondizionato può essere seguita da un lieve ma scocciato Che palle oppure, se il sole splende, la manicure è fresca e ho baciato mio marito, tendo ad accantonare la questione con un intramontabile Sticazzi.
Un giorno ho aperto la vetrinetta di legno azzurro decapato e monca di una maniglia adeguata con l’intento di far fuori qualcosa per guadagnar spazio, per alleggerire l’anima. Incappando nell’ingombrante vaso porta cero pasquale ho pensato che avrei trovato di nuovo il modo di usarlo, altrimenti andava fiondato. Comprare un’altra candela grossa come l'originale era fuori discussione, perché si trattava di un tuffo nel buio generatore di un fastidio extra e del tutto inutile dal quale voglio sentirmi libera: di solito, la cera si scioglie troppo poco e tutt’intorno allo stoppino, soffocando la fiamma dopo le prime ore, non illuminando pressoché niente attorno, non compiendo la sua funzione di candela, causandomi irritazione e senso di frustrazione per aver accumulato un'inservibile cosa in più.
Non so come mi sia venuta un’idea del genere, ma grazie al romanzo di questa 39esima puntata, Le perfezioni di Vincenzo Latronico edito da Bompiani, mi trovo a rimuginare e dare un senso più profondo alle motivazioni per cui un giorno, dopo aver portato a casa la spesa, intercettato il vaso che attendeva di essere ricollocato, l’ho preso e l’ho riempito di cipolle e patate, come una decorazione. Poi l’ho spostato sul lato del bancone in cui tengo le piante innominate per completare la mise en place e, improvvisamente, per una frazione di secondo una profonda soddisfazione mi ha reso un'essere umano migliore.
Nei giorni successivi si sono aggiunte teste d’aglio e pannocchie di cui Azzurra va matta. A volte compaiono barbabietole polverose e carote che attendono di essere sbucciate e messe sott’acqua in un barattolo prima di finire in frigo per essere conservate più a lungo. Da mesi e mesi orami il grosso vaso domina il lato sinistro del bancone, indisturbato e bello, mostrandosi al mio sguardo ogni volta che entro in cucina passando dal corridoio.
Mentre scrivo queste righe, sono seduta al tavolino della caffetteria in una piazzetta vicino a casa. Di fronte a me una donna con i capelli sporchi stretti in un coda di cavallo bassa e sfilacciata si soffia il naso rumorosamente; il tipo di fronte a lei ha abbinato dei pantaloni cachi a una camicia beige (stropicciata), pensando probabilmente di aver fatto bene; il terzo amico in arrivo che subito si accende una sigaretta ha una maglietta grigio scuro con la stampa di un gatto bianco contrariato che mi guarda mogio, intrappolato in una fila di lucine verdi, gialle e rosse che ne fasciano il corpo come se si trattasse di un albero di Natale. A fianco la scritta “HO, HO, NO”.
Il mondo è imperfetto e non se ne accorge. O forse si, ma sembra non curarsene. Forse questa è la libertà vera, mi domando. E torno a pensare al mio gigante vaso porta candela riconvertito a nuova vita in un porta cipolle, patate e oggetti vari.
Ma Latronico insegna: “non sempre la realtà era fedele alle immagini”.
Infatti non è dovuto trascorrere molto tempo prima che la mia nuova idea geniale si trasformasse nell’ennesimo contenitore raccogli bomma. Bomma è il termine con il quale la mia amica Margherita definisce il caos, il tutto che ti circonda senza un’utilità apparente ma senza nemmeno un evidente aspetto da roba che dovrebbe finire nella spazzatura.
Più persone si è in casa, più sarà la bomma che attenta il nostro incedere, che invade ogni pertugio. È l’accumulo di cose, oggetti che andrebbero sistemati in un altro posto che non è mai immediatamente accessibile, che ci si dimentica persino quale sia.
Elastici, fazzoletti puliti fuori dal pacchetto, fiammiferi, viti, matite da temperare, smalti per bambine, tappi di pennarelli, biglietti da visita, foglietti bianchi, istruzioni di oggetti tecnologici, pezzi di giochi da incollare, pile che presto si dimentica se siano cariche o no, monetine (anche di una valuta estera), sacchettini di plastica, detestabili fili di ferro ricoperti di gomma che servono a tenere insieme cavi e che non si gettano con l’idea di usarli per chiudere o fissare qualcosa e che puntualmente quando serviranno non verranno più ritrovati, pinze, spille da balia, fermagli per capelli, bottoni, biglie, tondini di plastica che chissà da dove vengano e a cosa servano ma appena li butterò ne scoprirò la funzione e mi maledirò per l’eternità, sciroppi per la tosse, bustine di tè, vitamine, fialette di soluzione salina per l’aerosol, pezzetti di pastelli, biro brutte ma funzionanti o che scrivono male ma scrivono ancora, elastici, perline, lacci, nastrini di vario genere, lucida labbra, adesivi, cerotti, accendini, pezzi di puzzle, pezzi di lego, qualche carta da gioco, braccialetti rotti e, se oggigiorno qualcuno ancora ne conoscesse l'uso e ne possedesse, sono certa, fermacampione.
La bomma.
Il mio bel vaso porta cipolle e patate fa la sua splendida porca figura tra le piante sul bancone della cucina. È perfetto perché non è solo bello da vedere ma anche comodo: capisco cosa c’è dentro, l’accesso al contenuto è facilitato; se poi ho comprato anche cipolle rosse e una zucca, magari, cromaticamente mi sento felice. Avendo nobilitato aglio, patate e cipolle offrendo loro un luogo di prestigio in cucina, mi sento scaltra e piena di risorse: il mio bel vaso ha di nuovo uno scopo e gli ortaggi sistemati arredano. Sento che c’è speranza per il mondo, per il futuro. Non per il tipo con la maglia col gatto.
Eppure l’immagine del mio vaso che potrei postare su Instagram non corrisponderebbe pienamente alla realtà. O almeno non sempre, perché sul suo fondo di vetro si depositano continuamente tuniche secche di cipolle che sembrano foglie autunnali sbriciolate; patate dimenticate mettono i germogli e raggrinziscono; poiché non voglio rischiare di dimenticare di dare i fermenti lattici e la vitamina D ai bambini, pastigliette e flaconcini bianchi e gialli trovano costantemente albergo sugli ortaggi, pronti all'uso. A volte si affiancano anche coupon del supermercato e altre medicine tirate fuori alla bisogna e in attesa di essere riposte nella scatola dei medicinali, portando scompiglio e rovinando inevitabilmente l'estetica generale che m'aveva infuso tanta pace.
A volte sperimento la pienezza della sensazione che lo spazio che abito sia come dev’essere, come ho scelto che debba essere, e ho vinto: tutto è al suo posto, dove ho deciso che debba stare, bello da vedere, funzionale, organizzato, esteticamente piacevole. Ma pressoché ogni giorno arriva anche un istante in cui devo ammettere la sconfitta dei miei sforzi e desiderata con la realtà. Essa mi sfugge di mano, torna a essere scompigliata come vuole, il caos cosmico da cui tutto s'è generato io lo avverto insinuarsi fra le dita dei piedi e serpeggiare sui pensili della cucina. Tutto sembra sfuggirmi di mano, ogni cosa tracima dagli argini che avevo imposto per sentirmi in armonia con la mia vita figurata, quella che posto su Instagram, quella in cui accolgo gli ospiti, l’unica in cui sento di potermi raccogliere e concentrare, in cui posso essere felice.
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Mentre aspettavano il caffè accendevano i punti luce negli angoli della sala, sprimacciavano il divano, piegavano la coperta spigata, cernivano la frutta avariata al fondo della grande coppa, lavavano le tazze o le nascondevano in lavastoviglie. Quando si sedevano a fare colazione ogni cosa era come doveva essere, e per dieci limpidi minuti sorseggiavano il caffè scorrendo le notizie sui social network e le home de giornali e si sentivano pronti a cominciare la giornata.
Ma per l’ora di pranzo quel sistema luminoso era già tornato a sfaldarsi sotto i colpi di mille piccole necessità (la posta, il raffreddore, la telefonata urgente), quasi che la realtà lottasse contro di loro per ristabilire la propria supremazia.
Anna e Tom sono i protagonisti di questo singolare romanzo di Vincenzo Latronico, selezionato nella dozzina del Premio Strega 2023 e in corso di traduzione in venti paesi, nel quale, attraverso uno sciabordio di descrizioni di ciò che caratterizza la loro vita e la loro quotidianità, il lettore s'immerge in una Berlino affascinante e decadente, in cui il verde di una monstera deliciosa e l'ocra di un parquet posato a spina di pesce sono l'idea iperuranica di una bella pianta e di un bel pavimento, di una pianta e di un pavimento come essi dovrebbero essere. L'estetica e la cura dei dettagli così importante nella vita berlinese di Tom e Anna è il motore che guida le loro vite di grafici creativi e nativi digitali, abituati a far caso ai particolari e consapevolmente soddisfatti di stare vivendo esattamente la vita che desiderano.
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In quei momenti ogni cosa sembrava possibile. Se si guardavano indietro, erano riusciti a ottenere tutto ciò che avevano desiderato. Era stato facile ma anche difficile. Sapevano di aver avuto fortuna a trovarsi così presto, ma anche determinazione e pazienza. Non sentivano di aver rinunciato a molto. Erano innamorati.
Il risultato di quell'amore era tutto intorno a loro. Il cibo caldo e saporito, le fatture in ordine, la casa e il lavoro che volevano – tutti quei dettagli componevano la loro vita. L'avevano inventata loro, più o meno costruendola di differenza in differenza sino a quando non avevano collimato con chi erano davvero, con una libertà che se fossero rimasti in patria non avrebbero mai avuto. Ne erano fieri. Al di là della finestra la città pulsava, richiamandoli con una promessa che non avevano fretta di verificare.
Più tardi aspettavano il sonno inspirando a fondo l'una il profumo dell'altro. Si sussurravano all'orecchio battute o piccolezze o promemoria per il giorno dopo, ma il contenuto reale di ciò che si dicevano era una preghiera, una preghiera silenziosa e stranamente accorata perché ogni cosa rimanesse esattamente così com'era. Era sempre esaudita.
Nella vita patinata eppur così reale di Anna e Tom, puntinata di perfezioni e guidata dall'estetica, viaggiamo in una Berlino in cui vino naturale e ceramiche dipinte a mano sono i tasselli che lastricano il sentiero che sospinge il lettore da un'inaugurazione a una festa che dura tutto il fine settimana.
L'incedere del libro è particolare perché la storia non procede per scene, non ci sono dialoghi né altri personaggi a parte i protagonisti che comunque sono appena delineati. Sembrano muoversi attraverso le pagine come una navicella spaziale: fanno cose, provano emozioni e organizzano lo spazio intorno a sé in un modo che viene articolandosi con un piglio dell'esplorazione sociologica.
"Il mio libro è ancora un romanzo (e non un saggio n.d.r.) perché non c'è giudizio: descrivo ciò che si vede da dentro la gabbia, e basta", risponde l'autore, intervenuto al Club del Libro dell'Istituto Italiano di Cultura di Budapest lo scorso giovedì. Occhiali leggeri e capelli sfumati corti, una camicia semplice e dei pantaloni un po' larghi, una borsa di tela e scarpe da ginnastica bianche: Vincenzo Latronico con fare sicuro prende posto su una sedia libera della Biblioteca ed entrando a far parte del nostro circolo, anche fisico, trascorre generosamente con noi del tempo prezioso portando a un altro livello di profondità le riflessioni scaturite dal suo libro.
"M'interessava parlare di tutto quel tempo che passiamo su questo coso qui", dice facendo ballonzolare su e giù un cellulare estratto dalla tasca dei pantaloni. In effetti, il romanzo si fonda sulla grande dicotomia fra ciò che è realtà (imperfetta) e la perfezione delle immagini che fruiamo attraverso internet e i social. L'atemporalità dell'uso del telefono che ci consente di essere sempre in un unico istante moltiplicato è poco esplorata letterariamente perché la struttura per scene del racconto non si presta a questa nuova esperienza che facciamo di internet.
p. 61
Era come attraversare il mercato di strada più caotico del mondo sotto cocaina. Era come fare zapping su una parete intera di televisori sintonizzati su canali diversi. Era come entrare in comunione telepatica coi pensieri di uno stadio gremito di gente. Non era come nient'altro, in realtà, perché era qualcosa di nuovo.p. 69
Un uomo filmava primi baci. Un aereo spariva sulla rotta per Pechino. Una donna era bella. Una casa piena di piante era bella. Una quiche vegana era bella. Un bambino aveva bisogno di soldi per la chemio. Il tempo spariva.
Nel viaggio antropologico contemporaneo che compiamo grazie al movimento unisono di Anna e Tom, inciampiamo sempre più sulla crepa profonda e sottile per cui l'idea estetica di bellezza che funge da guida per una vita felice non funziona nell'universo dei protagonisti perché è corrotta dal fatto di essere sempre qualcosa di indotto o figurato che mai corrisponde alla realtà. Una caduta dal Paradiso di cui Tom e Anna paiono avere una tiepida consapevolezza.
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Eppure qualcosa nello spirito era cambiato. Un tempo, guardando immagini come quelle con la consapevolezza di quanto fossero frustrate e infelici le persone che le avevano scattate, si sarebbero sentiti manchevoli, in colpa: come se la realtà delle foto dovesse avere la meglio sui loro sentimenti, e l'incapacità di godersi una vita tanto desiderabile rivelasse una qualche carenza nel loro carattere. Questa insicurezza era passata. Ora quelle immagini sembravano una truffa.
Laddove manchi l'idea classica del καλός κἀγαθός (kalòs kai agathòs), l'idea integra di bello e buono, quanto c'è di vero viene tradito: le immagini rispecchiano solo una parte della realtà e la spasmodica ricerca estetica ad ogni costo non fa che alimentare un'illusione, falsando relazioni e percezioni.
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Ma polemiche e attualità erano solo tuoni e lampi in un diluvio di bellezza. Sui loro schermi – ovunque, a ogni ora – conoscenti e vecchi compagni e ignoti di tutto il pianeta mostravano ciò che di bello c'era nelle loro vite. Le immagini filavano senza un filo logico che non fosse lo splendore, abiti vintage e autoscatti filtrati, foreste innevate, lidi cristallini, appartamenti ariosi e accoglienti, copertine di libri, pasticcini, fiori, animali selvatici, galassie, mostre d'arte contemporanea, piedi. Anna e Tom ne erano rapiti.
Tornando al mio ex porta candela riconvertito in porta patate, qual è il punto? Forse che sono vittima di un sistema consumistico e meschino che mi fa dare troppa importanza agli oggetti; forse che seguo le persone sbagliate su Instagram; forse che mi piacciono le cose belle da sempre e, quando l'estetica così come intesa oggi non andava ancora di moda, io sembravo un'aliena ai miei compagni di Erasmus perché perdevo tempo a stirare le lenzuola; forse perché chi ama le immagini (guardarne e produrne) non può non fare attenzione all'estetica; forse che merita fare una foto perfetta in meno e molte imperfette di più; forse tutte queste cose insieme.
Fatto sta che la venuta di Vincenzo Latronico, invitato a parlare del suo libro al PesText di Budapest, è stata un grande colpo di fortuna perché mai come in questo caso m'è parso che l'intervento dell'autore conferisse un gran valore aggiunto al suo testo. Per costruzione narrativa e riflessioni che sollecita, Le perfezioni è un libro che a braccetto in giro col suo autore diventa un'esperienza formativa di cui tutti avremmo bisogno.
Se sei curioso, forse puoi partire da qui.