Librini #42 - Sette brevi lezioni di fisica
la newsletter sui libri che dura il tempo di un cappuccino
Se la mia vita fosse un film, nelle ultime settimane sarebbe un susseguirsi di piani che mi inquadrano imbacuccata appoggiata al finestrino di un autobus blu, mentre decine e decine di volte attraverso il Danubio direzione Buda, persa nei miei pensieri. Una sola cuffia per non perdere il senso dello spazio che mi circonda e restare vigile su ciò che ruota attorno al mio involucro assorto; capelli arruffati, occhi un po' segnati che affondano in quel colore spesso tipico delle belle giornate oramai fredde quando è cambiata l'ora, un tardo pomeriggio che sembra già l'imbrunire con fiume grigio in dialogo con cielo rosa, carta da zucchero ma anche arancio. Bellissimo.
Un drone segue l'autobus dall'alto. Stacco sul mio piano americano in mezzo a sconosciuti mentre ballonzoliamo sul mezzo di trasporto. Stacco su una veduta aerea ma più bassa della precedente dell'autobus che attraversa il ponte. Stacco sul mio primissimo piano: gli occhi appena increspati dalla luce che sta cambiando. Stacco sul fiume, le imbarcazioni, i ponti che a breve s'illumineranno, il Castello che già risplende. Poi di nuovo io che guardo fuori, oltre, e una musica che riconosco potrebbe facilmente essere All by myself.
Ho sempre avuto la fissa di immaginarmi protagonista di un mio bel film e il fatto che la mente torni lì spontaneamente, non appena mi ritrovo sola a girare per strada, prendere un autobus, attraversare un ponte, mi riempie di speranze riguardo alla presenza, alla permanenza, sopita e incrollabile, della me di prima. E mi ricordo della mancanza che sento per ciò che sono stata, prima dei bambini, prima delle responsabilità, prima della vita in cui non si esce la sera perché a impedirlo non sono più i divieti genitoriali quanto i tuoi figli. Una me che, dall'esterno, pare io non sia più.
Il tragitto in autobus in cui mi sento un’eroina dei tempi moderni dura una ventina di minuti, ma i più preziosi sono gli istanti esteticamente inarrivabili di attraversamento del Ponte Elisabetta appena descritti. Anche se di tutto il girato della me che va in autobus ogni giorno si possono salvare appena pochi secondi, essi valgono quanto l'unica scena madre di tutto un film.
Poiché alla fin fine la mia vita non è un film, mi piace andare al cinema a vedere cosa succede alle protagoniste delle storie più disparate. Come sono pettinate, vestite, truccate perché non sembri che lo sono. Come camminano, cosa piace loro, come parlano, cosa bevono, che espressioni fanno quando pensano di non essere viste.
Ieri sera sono andata alla prima del Mittel Cinema Fest e ho visto al Puskin Mozi Parthenope, l’ultimo lavoro di Paolo Sorrentino, uscito nelle sale in Italia lo scorso 24 Ottobre e giunto a noi grazie al lavoro congiunto dell’Istituto Italiano di Cultura e di Cinecittà. A presentarlo c’era anche la protagonista che dà il nome alla pellicola, interpretata dall’attrice Celeste Dalla Porta, una creatura effettivamente celestiale alla quale Sorrentino dedica decine e decine di inquadrature poetiche e riflettute che la me del tragitto in autobus da ora in avanti sognerà di notte sino e oltre i novant‘anni.
Poiché in questa sede parliamo di libri e non di film, non mi soffermerò a cincischiare troppo su quanto abbia tremato e sorriso rannicchiata nella mia poltrona al buio della sala, non dirò nulla dei brividi sulle braccia a immedesimarmi in Parthenope, Celeste, contemplando i suoi capelli e la sua risposta pronta in ogni occasione, la sicurezza data dalla bellezza senza sforzo. Non menzionerò il fatto che mi sembri evidente come critiche e commenti siano scissi nel considerare questo film un grande flop o l’ennesima notevolissima opera del regista napoletano. Poco importa rivelare il mio schieramento senza dubbio alcuno fra i sostenitori; ma soprattutto non menzionerò neanche sotto tortura che, tornata a casa, come un’adolescente, ho aperto il mio computer nuovo rigenerato di pacca e sono andata a cercare la scena madre, quella manciata di secondi per cui valgono tutti gli altri più di 100 e rotti minuti. L’ho trovata e me la sono riguardata e poi ne ho piazzato come immagine di sfondo del desktop un frame per ricordarmi di ricordare chi ero, anche io, prima di diventare adulta. Una ragazza qualsiasi, con una sigaretta in bocca, tanti pensieri e tempo illimitato per trastullarmici in mezzo oltre che infinite possibilità di diventare tutto. E per ricordarmi che chi ero non può passare, che mi appartiene.
In aggiunta, siccome un bel film è davvero potente quando la musica è completamente azzeccata, Paolo Sorrentino ha pensato bene di usare una canzone memorabile di Cocciante che, da sempre, mi fa venire i brividi e, vibrando a delle frequenze inaudite per il mio animo, ha il potere di richiamare l’intensità della vita sgominando la frustrazione che a volte si genera a causa della presunta banalità del quotidiano.
Quando sono tornata a casa col cuore gonfio di fame di giovinezza, ho trovato i bambini svegli nonostante l’ora tarda e con un pizzico di fatica in più ho dovuto infilare pigiami, cambiare pannolini, preparare biberon che come clave ho sentito scagliarsi contro il mio girovago fantasticare, mandandolo in pezzi in pochi secondi. Sono scesa dai tacchi, dai miei pensieri, ho ripreso le redini, con quel desiderio di libertà, freschezza e disperazione che solo la giovinezza possiede, frustrato dalla continue attuali necessità. Ho fatto di nuovo il mio dovere, ho surfato l’onda, mi sono prestata, com’è giusto che sia, e poi mi sono rintanata in bagno per cercare davanti allo specchio quell’immagine precisa della me che ha per sempre 27 anni.
In pigiama, struccata e sfinita, sono andata ad abbracciare mio marito per confessargli a bassa voce in un orecchio che mi manca essere giovane. Lo capisco, mi ha detto. Torniamo a essere di nuovo un po’ giovani, gli ho proposto. E come? ha indagato. Ho bofonchiato qualcosa che non ricordo e forse nemmeno lui ha capito. Ma non importa, perché ciò che conta è che mentre gli consegnavo la mia confessione lui ha aperto un palmo per raccoglierla e, senza soppesarla o giudicarla, l’ha accolta e so che la custodirà.
Passata la fase in cui riascolterò tutto Cocciante fino all’annichilamento, per esaurire la quale mi ci andrà un attimo perché mi ci crogiolerò dentro come una turista alle terme, tornerò da Gabriele a dirgli che in fin dei conti il tempo non è che un concetto soggettivo e che, forse, in realtà non esiste. Per cui possiamo essere di nuovo giovani quando ci pare.
Non proprio in simili termini ma in un modo sufficientemente chiaro e apprezzabilmente poetico, Carlo Rovelli mi sembra affrontare questo e altri argomenti nel suo piccolo geniale saggio di fisica pubblicato da Adelphi.
In questo saggio che dura il tempo di una colazione lenta, Carlo Rovelli in meno di cento pagine guida il lettore attraverso la fascinazione dei concetti della fisica che permettono di (provare a) capire il nostro mondo. Si tratta di sette brevi lezioni che, grazie a un approccio divulgativo e parco di linguaggio specialistico, fanno di questo piccolo splendido Adelphi un esemplare imprescindibile per qualsiasi libreria domestica.
Immagino il volto sorpreso, stupito, sconvolto del mio professore di matematica e fisica del Liceo, che ha capito al secondo giorno del primo anno che con me sarebbe stata una battaglia persa, eppure ci ha talmente creduto da interrogarmi alla Maturità su concetti spiegati in classe solo durante l’ultima settimana di scuola: mai verificati, mai ripassati, senza aver mai potuto assimilarli, tentare di capirli o anche solo provare a studiarli a memoria. Don Maj, un salesiano tutto d’un pezzo con la barba bianca e dall’aroma di mandarino, voce profonda, pensieri netti e maniche corte anche a dicembre, ha sempre sostenuto che si studia in classe e quindi gli ultimi argomenti trattati, dal suo punto di vista, dovevano essere i più freschi, quindi facili. Più che freschi, i concetti della fisica e della matematica sono sempre stati ghiacciati, ibernati, congelati: una massa informe, inscalfibile, impossibile da decifrare, ostile e in alcun modo malleabile dalla mia mente. Ovviamente, all’orale di fisica alla Maturità, con le ascelle ormai secche e la gola asciutta, ho fatto una serena scena muta di fronte a Francesco Maj. Con un sorriso e una remissione disarmanti gli ho detto che non sapevo, non ricordavo, e so che lui non me lo fece apposta. Ha sempre detto che ero un uccellino che prima o poi avrebbe preso il volo. Per anni, dopo il Liceo, ho ricevuto sue cartoline da ameni luoghi montani: al posto di un saluto, un integrale da risolvere con un bel punto interrogativo. Un uomo d’altri tempi a causa del quale non so quante pasticche contro il dolore di stomaco ho assunto da adolescente perché ogni interrogazione, ogni compito in classe è stato una fonte di stress inaudita, irripetibile palestra per il futuro. Forse Don Francesco Maj, che per anni ha chiamato al numero fisso di casa il giorno del mio compleanno per farmi gli auguri, penserebbe ancora che assomiglio a un uccellino in prova di volo mentre leggo la possanza dell'indescrivibile nelle veloci pagine di Rovelli ed effettivamente è proprio come ci si sente, messi di fronte allo spazio infinito.
Temendo non sarebbe cambiato molto del mio rapporto con le cose matematiche anche se avessi avuto a disposizione questo testo durante gli anni liceali, mi rendo pace rispetto al fatto che sia buonissimo affrontarlo al giorno d’oggi, con una maturità e un’apertura mentali diverse da quelli di un’adolescente. Tuttavia sono certa Rovelli avrebbe conquistato il mio cuore in tumulto già allora, spiegandomi le cose del mondo con poesia e sincerità, facendomi sentire in linea con l’Universo.
pp. 40-45
La meccanica quantistica e gli esperimenti con le particelle ci hanno insegnato che il mondo è un pullulare continuo e irrequieto di cose, un venire alla luce e uno sparire continuo di effimere entità. Un insieme di vibrazioni, come il mondo degli hippy degli anni Sessanta. Un mondo di avvenimenti, non di cose.
[...] Per adesso, questo è quello che sappiamo della materia. Una manciata di tipi di particelle elementari, che vibrano e fluttuano in continuazione fra l'esistere e il non esistere, pullulano nello spazio anche quando sembra non ci sia nulla, si combinano assieme all'infinito come le venti lettere di un alfabeto cosmico per raccontare l'immensa storia delle galassie, delle stelle innumerevoli, dei raggi cosmici, della luce del sole, delle montagne, dei boschi, dei campi di grano, dei sorrisi felici dei ragazzi alle feste, e del cielo nero e stellato la notte.
Carlo Rovelli afferma che la scienza ci spiega come comprendere meglio il mondo ma ci dimostra anche quanto sia sconfinato ciò che ancora non sappiamo. Nelle sue sette lezioni, il saggista parla di Einstein e della sua teoria della relatività generale, di meccanica quantistica, di architettura del cosmo, di particelle elementari, di gravità quantistica, di buchi neri e del loro calore e anche di noi stessi e di come possiamo riuscire a pensarci nell'incredibile e strano mondo descritto da questa fisica.
p. 51
Dove sono questi quanti di spazio? Da nessuna parte. Non sono in uno spazio, perché sono essi stessi lo spazio. Lo spazio è creato dall'interagire di quanti individuali di gravità. Ancora una volta il mondo sembra essere relazione, prima che oggetti.
Essere lo spazio invece di abitarlo e crearlo attraverso le relazioni mi sembrano concetti così poetici e di interesse universale da meritare una riflessione che va ben oltre il tempo del libro in questione. Se di tempo così come normalmente lo intendiamo è ancora possibile parlare… Forse il tempo non esiste, non è uguale per tutti. E allora si crea un corto circuito cognitivo difficile da sbrogliare eppure così ricco di prospettive. E speranze.
p. 56
Il nostro universo può essere nato dal rimbalzo di una fase precedente, passando attraverso una fase intermedia senza spazio e e senza tempo.
La fisica apre la finestra per guardare lontano. Quello che vediamo non fa che stupirci. Ci rendiamo conto che siamo pieni di pregiudizi e la nostra immagine intuitiva del mondo è parziale, parrocchiale, inadeguata. Il mondo continua a cambiare sotto i nostri occhi, man mano che lo vediamo meglio.
La Terra non è piatta, non è ferma. Se proviamo a mettere insieme quanto abbiamo imparato sul mondo fisico nel Novecento, gli indizi puntano a qualcosa di profondamente diverso dalle nostre idee istintive su materia, spazio e tempo. La gravità quantistica a loop è un tentativo di decifrare questi indizi e guardare un po' più lontano.
p. 58
Il calore, come sappiamo, va sempre dalle cose calde verso le cose fredde. Un cucchiaino freddo dentro una tazza di tè caldo diventa caldo anch'esso. in una giornata gelida, se non ci copriamo bene perdiamo rapidamente calore e ci raffreddiamo.
Perché il calore va dalle cose calde alle cose fredde e non viceversa?
Si tratta di una domanda cruciale, perché riguarda la natura del tempo. in tutti i casi in cui non viene scambiato calore, infatti, oppure quando il calore scambiato è trascurabile, noi vediamo che il futuro si comporta esattamente come il passato. [...] Per esempio, fintantoché non c'è attrito, un pendolo continua a oscillare per sempre. Se lo filmiamo e proiettiamo il film al contrario, vediamo un movimento del tutto possibile. Ma se c'è attrito, per attrito il pendolo scalda un poco i suoi supporti, perde energia e rallenta. L'attrito produce calore. E subito siamo in grado di distinguere il futuro (verso cui il pendolo rallenta) dal passato. [...] La differenza fra passato e futuro esiste solo quando c'è calore.
Rovelli ci accompagna con semplicità sconcertante a fare un bagno di umiltà necessario, grazie al quale si spalancano domande dal peso specifico impegnativo eppure al contempo si schiudono finestre di leggerezza. Invitandoci a spostare il nostro punto di vista, a sentirci parte infinitesimale di un tutto dalle proporzioni inconcepibili, sollevandoci dal bisogno di essere il centro, il fuoco, si apre la possibilità di ripensarsi in linea con il flusso, ridimensionando gli accadimenti e contemplandoci come parti di un progetto più ampio della nostra limitata singolare visione.
p. 73
Nel mare immenso di galassie e di stelle, siamo un infinitesimo angolo sperduto; fra gli arabeschi infiniti di forme che compongono il reale, noi non siamo che un ghirigoro fra tanti.
p. 78
[...] quando diciamo che siamo liberi, ed è vero che possiamo esserlo, ciò significa che i nostri comportamenti sono determinati da quello che succede dentro noi stessi, nel cervello, e non sono costretti dall'esterno. Essere liberi non significa che i nostri comportamenti non siano determinati dalle leggi della natura. Significa che sono determinati dalle leggi della natura che agiscono nel nostro cervello. Le nostre decisioni libere sono liberamente determinate dai risultati delle interazioni fugaci e ricchissime fra i miliardi di neuroni del nostro cervello: sono libere quando è l’interagire di questi neuroni che le determina. […] La nostra intensa sensazione di libertà interiore, come Spinoza aveva visto acutamente, viene dal fatto che l’idea e le immagini che abbiamo di noi stessi sono estremamente più rozze e sbiadite del dettaglio della complessità di ciò che avviene dentro di noi.
Accanto a questo saggio del 2014, nella mia libreria troneggia anche un altro scritto di Rovelli del 2017, L’ordine del tempo, che a maggior ragione adesso, tormentata da Sorrentino e Cocciante, sono costretta a sfilare e riposizionare in cima alla pila delle mie letture, pronta a lasciarmi attraversare dal mistero e sorretta dal sempre imprescindibile scrollo di meme azzeccati a ogni situazione della vita.




