Librini #43 - Cose che non si raccontano #EDD2024
la newsletter sui libri che dura il tempo di un cappuccino
Mi sveglio venerdì mattina all’alba, prima dell’alba. Mi aspetta una giornata intensa, bella ma faticosa. Tanto vale cominciarla presto.
Sgattaiolo in bagno pregustando un cappuccino al buio della cucina a Novembre. Invece no, mio marito si alza poco dopo perché deve prendere un treno prestissimo e lavorerà fuori città; l’avevo scordato. Ha le occhiaie gonfie, ovviamente più delle mie. Quindi, mentre si chiude la porta dell’altro bagno alle spalle, gli dico che gli preparo la colazione: fai tranquillo, dico.
In bagno, la pila di chiari da lavare accumulata nel lavandino mi assale ma faccio finta di non vederla, tanto ho un altro lavandino. Entro in un maglione enorme, grigio chiaro, quello di quando proprio fa freddo, tiro sù la lampo del dolcevita con un colpo secco che fa effetto anche a me e infilo le ciabatte di velluto verde con un fiocco spropositato.
Con le cioce di una zarina vado in cucina, accendo la luce sopra i fornelli, apro il frigo per prendere due uova con una mano mentre con l’altra sto già tentando di aprire il cassetto basso dietro di me. Sono una funambola su un filo immaginario e faccio avanti e indietro di continuo: mantengo l’equilibrio fra la padella e le uova. L’equilibrio è tutto nella vita. Se ti scappa sei morta.
Chiudo il frigo, poggio le uova vicino ai fornelli e prendo la bottiglia dell’olio mentre appoggio la padella sul ripiano nero lucido, che però non è mai lucido quanto meriterei o almeno non così a lungo. Prima ancora che la padella abbia concluso la sua manovra di atterraggio, faccio fare un paio di giri all’olio.
Scelgo la tazza rossa, sbocconcellata ma è la sua preferita; la poggio accanto alla macchinetta del caffè mentre pigio forte e allo stesso tempo i due tasti che ne determinano l’accensione con indice e medio della mano destra; intanto la sinistra apre lo sportello sopra la mia testa e afferra un paio di cialde da un barattolo di vetro: il caffè glielo faccio espresso doppio e macchiato, come le occhiaie.
Via con la prima cialda: mentre la macchinetta brontola come un trattore, riapro il frigo e cerco il latte senza lattosio, lo verso nel bricchetto che lo monta lì accanto. Lo scoperchio al volo: ne metto un po’ più della quantità consigliata perché lui se lo fa sempre così. Lo aziono e mi concentro sulla seconda cialda. Nel frattempo, alla precedente ho fatto fare duetre giri spingendo il pulsante della tazza più piena. A casa nostra il caffè si fa a sentimento. Venerdì il sentimento è intenso e lungo.
Mentre il latte si monta, torno alle uova: ne sbatto una con la mano destra per creparla, con la sinistra prendo una ciotola dal cassetto basso alle mie spalle, la poggio di fronte a me e con due mani mi concentro sull’uovo per romperlo bene e assicurarmi che pezzetti di guscio non finiscano in mezzo. Compio la stessa operazione due volte e butto subito i gusci nel secchio accanto al frigo che apro con un piede spingendo un pedale. La ciabatta principesca non è pensata per questo tipo di operazioni così domestiche. Alla fine, preferisco stare scalza, operativa. Le ciabatte a me servono solo per andare dal bagno alla cucina e poi basta. Me le dimentico ai piedi del divano prima di andare a letto quindi, di solito, non mi fanno fare nemmeno il tragitto letto-bagno. Solo bagno-cucina.
Sbatto le uova a dovere, aggiungo un po’ d’acqua e sbatto ancora finché non si creano tante bollicine. Aggiungo il sale, intanto controllo il latte. Quando è pronto non va versato subito nella tazza: la schiuma ha bisogno di qualche istante per compattarsi, per rapprendersi quel giusto da poter dire che buon cappuccino. Poiché non si può neanche aspettare troppo, altrimenti si divide la parte liquida da quella schiumosa, prendo il mano il bricchetto e lo faccio roteare per staccare bene il latte dalle parete del contenitore e mi preparo a versarlo, inclinando la tazza. Non m’è mai riuscito di far uscire nessun disegno, solo qualche striatura. Comunque, non lo ritengo un cruccio.
È il turno di un leccapentola che estraggo dal solito cassetto alle mie spalle: ogni volta che lo apro penso che avrei bisogno di un organizzatore di posate. Lo penso da tre anni. Alla fine, poiché conosco perfettamente il contenuto del cassetto, cerco l’arnese opportuno con lo sguardo e mi sembra di compiere un gesto creativo come quello di un artigiano che schiude uno scrigno di tesori aprendo la propria cassetta degli attrezzi.
Per fare delle ottime uova strapazzate bisogna che l’olio e la padella siano belli caldi. Le uova sbattute si lasciano friggere un pochino fin tanto che non si vedono i bordi sollevarsi appena di quella che vorrebbe diventare una frittata. È un attimo: a quel punto è la spatolata sapiente e misurata, decisa e netta, mai esagerata che dall'esterno smuove verso l’interno il composto e fa la differenza tra una poltiglia stracotta e secca e uno splendido piatto di scrambled eggs umide e con una forma che ricorda le linee e le forme delle scogliere levigate dal mare.
Le mie uova strapazzate sono francamente ottime. Gliele metto in un piatto, apprensiva: vanno mangiate subito altrimenti non saranno più (così) buone. Porto piatto e tazza sul tavolo, torno indietro, prendo le posate e tiro fuori un bicchiere pulito dalla lavastoviglie. Torno verso il tavolo, sistemo il coperto e poi mi allungo alla finestra. La apro e prendo le arance che teniamo fuori. Decido per tre, grandi. Basteranno. È in quel momento che mi accorgo che fuori sta nevicando. Sono le 4:38 del mattino. O della notte. Mi ero alzata solo per fare pipì, magari farmi forza e restare in piedi, carburare da sola, fare il punto, prepararmi con calma. Invece sono finita in una puntata di Master Chef delle colazioni.
Comunque fuori è buio e sta nevicando. È bellissimo e indugio di fronte ai vetri. Tutto tace, è lento, i tetti bianchi sono ancora più belli, suggestivi, imponenti, familiari del solito. Amo immensamente questa vista. Questa vista, questi tetti sono casa.
Faccio la maggioranza delle cose della mia vita velocemente proprio per potermi permettere sempre cose del genere: fermarmi e indugiare davanti alla neve, quando voglio, quando scende.
Oggi Azzurra è a casa da scuola e ho promesso ai bambini che avremmo fatto l’albero di Natale: è un giorno perfetto per fare l’albero di Natale, anche se è solo il 22 Novembre.
Torno all’acquaio: sciacquo le arance, prendo un coltello affilato e le partisco, lasciandole nel lavello. Da sotto ai fornelli cerco lo spremiagrumi che fortunatamente è elettrico sennò col cavolo. Mentre spremo sei metà e le verso nel bicchiere già preparato, mio marito entra in cucina con tutto il suo carico di fatica che so, conosco, vedo e saggio quotidianamente, che accolgo anche se lui dirà non sempre e io dirò la maggioranza delle volte. Entrambi non ci sbagliamo. Ha dormito poco e questa cosa lo distrugge. E lo vedo che non è colpa sua ma non ha i super poteri come me, come una donna. Lo vedo solo un uomo mentre mastica un pezzo di pane con il quale ha fatto la scarpetta nell'uovo umido. Mi sono dimenticata di dire che avevo tagliato, scaldato e messo a tavola anche delle fette di pane.
Mentre fa colazione, io rifaccio i passaggi già detti per preparare finalmente il mio cappuccino; mentre la macchinetta fa il solito brontolio, penso a innumerevoli e quanto mai variegate questioni che mi riguardano:
la tosse di Azzurra
l’albero e le decorazioni pesanti da tirare giù da sopra l’armadio: non posso lasciarlo uscire se prima non mi ha aiutato a fare questa cosa
gli ospiti in arrivo sabato mattina
Librini da scrivere: venerdì notte, sabato all’alba
in frigo due banane troppo fatte aspettano di finire in un plum-cake
anche la carne, se non mi spiccio a fare le polpette, toccherà buttarla
detesto buttare il cibo
sì, ma non posso fare sempre tutto!
cos’ho di pronto per sabato a pranzo?
i regalini sono ancora da incartare appoggiati sull’asse da stiro insieme ad altre quarantasette cose che attendono di essere gestite
che caos la lavanderia!
se non vado dal sarto oggi, domani sarà chiuso a Lele serve la giacca per lunedì
comunque manca il pane fresco: dovrò uscire con i bambini, a un certo punto, e prendere anche le uova, già che ci sono
cosa preparo oggi a pranzo?
per cena farò le lenticchie, di solito le mangiano tutti
ultimamente Azzurra mangia poco o niente di quel che preparo
che palle
sarà entusiasta della neve
Dante romperà tutte le palline
sticazzi
cosa mi metto per la diretta?
devo fare la doccia
quando mi asciugo i capelli?
dopo vado in bagno a ripassarmi il canovaccio di cosa devo dire e mi faccio la doccia; poi, semmai, non mi asciugherò i capelli
non si può la diretta coi capelli sporchi
devo caricare il microfono
devo prendere tutti i caricatori
Azzurra aveva male a un orecchio: meglio la veda la pediatra?!
oggi la pediatra riceve dalle 9 alle 13
speriamo che Dante dorma all’orario giusto sennò stasera sono guai
stasera dovrò lavorare moltissimo...
non ho un orologio per vedere di stare nei tempi della diretta
che ansia, ’sta diretta: non sono abituata
ho quasi finito il mascara marrone
devo comprare online i sacchetti del mangiapannolini
verrà il fotografo a coprire l’evento?
devo ringraziare Lilla
sono stanca…
devo riattaccare il bottone a quel vestito prima di perderlo
certo, mi servirebbe un cappotto nero...
Si blocca, scarico, lo spazzolino elettrico sui miei denti insaponati. Mi ritrovo davanti allo specchio del bagno (mi ero lasciata in cucina in procinto di far colazione). Vengo improvvisamente e provvidenzialmente catapultata fuori dal vortice del mio carico mentale. Dovrei potermi staccare la testa dal collo e provare a rovesciarla nella vasca, a vedere se uscisse mai un po’ di roba che non mi serve, che non ce la faccio.
Niente, la testa rimane sul collo: siero uno, siero due, gocce negli occhi, contorno occhi, crema giorno, SPF anche se nevica: ma certo, non si è mai troppo assennati nel perseguire l’eterna gioventù.
Infilo i pantaloni della tuta senza mutande. Le mutande sono in camera da letto. Se vado in camera da letto, apro l’armadio e cerco le mutande, rischio di svegliare i bambini. Se i bambini si svegliano adesso è la fine.
Sto bene senza mutande.
Tornata in cucina, dopo aver avviato anche una lavastoviglie, mentre mettevo qualche piccolo spuntino in un sacchetto da cucina in silicone riciclabile per il viaggio in treno di mio marito, valuto l’opportunità di come usare al meglio questo tempo che mi separa dal sorgere del sole: sembra tutta roba mia quella che c’è da fare. Non è trascorsa neanche un’ora da quando mi sono alzata, è ancora prestissimo e sento premere la quotidianità che per un attimo mi dona la lucidità per realizzare che è troppo. È tutto spesso troppo per una persona sola, una persona normale. L’epifania dura solo un istante, passa subito. Volevo scriverlo apposta, quello che faccio. Perché certi giorni mi sembra di non aver fatto niente, perché non ho prodotto. Prodotto qualsiasi cosa, dai pasti equilibrati ai contenuti letterari, con tutto quello che ci passa in mezzo. Ma è un inganno. Ricordalo.
Non me lo ricorderò.
Mi sveglio venerdì mattina all’alba, prima dell’alba perché questa sera c’è il mio Club del Libro. Registrerò una diretta su Instagram perché ho iscritto il progetto al Festival Eredità delle Donne con la direzione artistica di Serena Dandini, dedicato all’emancipazione femminile. È andata che siamo il solo evento all’estero del calendario OFF insieme a qualcosa a San Paolo del Brasile. Questo dettaglio ha dato molta visibilità al nostro evento. Ci hanno citato dappertutto, anche sui giornali, in tv. Non sono abituata. Se solo sapessero che prendo appunti di idee mentre faccio la pipì e scrivo la mia newsletter la notte prima che esca non mi accorderebbero nessuna credibilità.
Ho preparato delle sorprese: ho invitato un attore bravo e dal cuore grande a leggere brani del romanzo di Antonella Lattanzi Cose che non si raccontano: è il libro di cui parleremo venerdì sera. Non è per tutti; sono felice che abbia accettato.
Ho comportato un microfono. Ho stampato un canovaccio con la mia stampante termica portatile che fa uscire i documenti che sembrano enormi scontrini arrotolati. Ho scritto ad Antonella Lattanzi per chiederle di intervenire nella diretta, se le fa piacere. Non può: presenta il nuovo libro da qualche parte quel giorno a quell’ora. Ci tiene a mandarmi un video. Lo fa e le sue parole sono preziose. Mi onorano e le conservo. Librini che nasce nel buio porta luce, sempre più luce.
Non mi piace apparire, parlare in pubblico. Va bene, lo farò per questa newsletter, per le persone che mi appoggiano, per la me del futuro: una di quelle che questo Festival ama. Lo faccio perché non c’è un momento giusto per mettere in piedi qualcosa: c’è solo il presente e quello che puoi fare giorno per giorno, scansando macchie di latte e succhi sulla scrivania, sottraendo l’agenda da pennarelli killer, mandando una mail o un vocale dall’autobus, creando un post dal bagno, pensando a cosa scrivere sempre, in ogni momento, e mandandosi promemoria per non dimenticarsi delle idee geniali che colgono sempre appena prima di dormire o mentre chiaramente non si ha il telefono a portata di mano.
Io posso fare moltissime cose ogni giorno. Persino fermarmi a osservare la neve.
Sono stata una che non sapeva dire neanche ciao prima del caffè la mattina. Oggi posso tutto. Non per questo è facile. Ma mi sembra che le cose facili non siano mai state tipiche della mia via.
Ne sa qualcosa anche la splendida Antonella Lattanzi, una delle scrittrici più potenti, spietate, intense e generose che si possano leggere nel panorama attuale. Questa 43esima puntata della newsletter parla di lei e del suo romanzo Cose che non si raccontano. Ripropongo di seguito la recensione comparsa nella puntata #11.
Ma prima puoi guardarti la registrazione della diretta del Club del Libro: vedrai una splendida Biblioteca e le molte persone che con generosità partecipano a realizzare con me un piccolo miracolo di inestimabile valore: la condivisione.
Questa invece è Antonella Lattanzi che in tre minuti parla del Festival L’Eredità delle Donne, della sua amicizia con gli Istituti Italiani di Cultura e, dulcis in fundo, di Librini.
Antonella Lattanzi ha scritto un libro pieno di un sacco di cose che non si raccontano, di solito.
Che non si raccontano un po' per pudore, un po' per tristezza, perché chi vive certi traumi poi fa fatica a parlarne, a condividere il proprio dolore con gli altri. Credo.
Cose che non si raccontano anche perché quando lo si fa, se si sceglie di farlo, spesso si opta per un professionista: paghi uno psicologo, uno specialista dell'ascolto, per riversare sul suo titolo di studi, con un po' meno vergogna — perché stai pagando — tutto quello che appunto non reputi di poter dire ad altri. Le tue pene inconsolabili, il dolore, l'odio verso tutti quelli che non stanno male come te (perché non stanno tutti male come te? com'è possibile?). Poco importa che quel medico poi ti aiuti a elaborare, a stare meglio (tanto non starai mai più bene davvero, a chi la raccontano?). E forse si pensa anche che quei soldi investiti nella narrazione di cose che di solito non si possono accollare agli amici, alla mamma, ai colleghi o al barista sotto casa, a chi-che-sia, rappresentino un primo (o ennesimo) tentativo di movimento per tirare a campare, un passo per iniziare a guarire, almeno un po'.
Sembra forse che non abbia una gran considerazione degli psicologi; non è così. E non voglio dire che la protagonista dell'ultimo romanzo della Lattanzi, edito da Einaudi, non avrebbe forse bisogno di un professionista che l'aiutasse a metabolizzare il suo lutto. Tutt'altro. È che, in questo caso, quella donna che in Cose che non si raccontano parla in prima persona è l'autrice stessa, la quale dopo mesi di silenzi e al termine di un'esperienza più che traumatica, decide di vomitare stupendamente tutto in un libro. Perché scrivere è la salvezza, scrivere può essere, se non la terapia, almeno la via per continuare a dare un senso, persino a questa "storia nera"* o meglio rossa, rosso sangue, come dice lei stessa più volte.
In questo indicibile racconto, Antonella narra dei suoi aborti, dei suoi cinque bambini mancati: delle sue tre gemelle, Al Joe e Jack, desiderate e cercate a nervi tesi e cuor palpitante, e dei loro fratelli maggiori arrivati quando ancora non era il momento. Prima era solo il momento per lavorare, per scrivere.
Non c'è molto altro da dire sulla trama: come va a finire è chiaro sin dall'inizio.
Forse vogliamo andare avanti, una pagina dopo l'altra, un fiotto di sangue alla volta, per stare vicino ad Antonella: appare spaventoso che abbia potuto fare finta di niente con il mondo esterno mentre affrontava la più devastante esperienza che possa capitare a una donna che cerca una gravidanza, a una coppia che desidera un figlio, a una madre che nasce da subito, da quando scorge incredula la seconda lineetta scura sul test di gravidanza. Perdere i propri bambini non è un concetto umanamente concepibile, contenibile dalla mente di una mamma.
Madri, tali, aspiranti o mancate, tutte voi all'ascolto/lettura: vi farete del male seguendo Antonella nella sua storia nera, e rossa. Vi farete del male perché lei non sconta niente in termini di dramma, dolore. Vi farete anche coraggio; a tratti verserete una lacrima e, chissà, potreste anche sentirvi prese di mira. D'altra parte Toni Lattanzi lo ammette sin dal titolo cosa si troverà nel libro; questo titolo è quasi un avvertimento, ma anche una trappola.
Avevo preordinato il romanzo prima che uscisse e non vedevo l'ora di leggerlo, dopo aver divorato con passione Questo giorno che incombe, la sua intrigante opera del 2021. Poi ho cominciato a sentire qualche presentazione, a leggere delle recensioni e il libro ha iniziato a scivolare nelle retrovie: ne preferivo sempre un altro e guardavo questo con reverenza e timore. Ero incinta e inconsciamente sapevo che non ci avrebbe fatto bene — ne a me né al libro — leggerlo in stato interessante.
Conservarlo per dopo, per adesso, non me lo ha certo reso più lieve: non mi si è stretto di meno il cuore; Antonella è comunque riuscita a farmi sentire ingiustamente in colpa. E per questo le ho voluto ancor più bene leggendo le sue righe, perché le parole dette come si deve, quelle vere e forti, fanno così: smottano le emozioni, sbloccano sensazioni. Allora succede che manciate di parole inanimate di un testo s'inverino e s'insinuino nella tua vita. Allora è successo che mi sono schernita mentre giravo le pagine con una mano sola, sostenendo con l'altra il mio bimbo nuovo di zecca, al mattino presto, mentre nel suo lettino l'altra mia bimba dorata respirava serena.
Ho due bambini, due bambini sani e bellissimi, un maschio e una femmina. Ho sentito battere i loro cuori dalla prima ecografia e non ho più smesso.
Sono una stronza.
Antonella piange.
Penso proprio che la mia gravidanza sarebbe stata diversa se avessi sofferto con l'autrice, con la protagonista lungo le sue durissime 207 pagine.
Li chiamano embrioni e feti, ma sono bambini da subito, da sempre. Hanno nasini e manine quando ancora non è scomparsa la coda. Hanno boccucce e piedini quando sono ancora solo un rimbombante e ridondante pensiero nella nostra mente. I figli sono già tutto quando ancora non esistono. Lo sono a maggior ragione quando un giorno ti fanno sentire che lì dentro al tuo corpo non batte solo più un cuore, il tuo, ma ce n'è uno nuovo che sembra un cavallo lanciato al galoppo. O due. O tre; le figlie di Antonella Lattanzi. Mai nate. Le sue figlie.
Il romanzo è pieno di crudeltà vissute, pensate, inflitte, subite. C'è anche molta tenerezza e dolcezza. È un misto di amore e tragedia; tutto è enfatizzato dalla potente scrittura della Lattanzi che chirurgica, sincera e fighissima confermo essere riuscita nel suo intento di raccontare delle cose che non si raccontano, facendolo magnificamente.
Nel libro c'è anche, neanche troppo indirettamente, una denuncia della società contemporanea che di fatto costringe le donne a scegliere se vogliono lavorare o essere madri, una scelta imposta e pressoché obbligata tutta al femminile che nessun uomo che lavora ed è padre è mai stato costretto a prendere. A tal proposito, ecco spuntare Andrea, il compagno della protagonista, che non sappiamo se odiare, compatire, mandare a quel paese, ringraziare. Forse un po' tutte queste cose insieme. Io non so cosa ho pensato, alla fine, di Andrea. Forse che tutti gli uomini si assomigliano, nel bene e nel male.
Tutte si assomigliano anche le madri: tali, aspiranti, mancate.
* Una storia nera è il titolo del terzo romanzo della Lattanzi, Mondadori, 2017.