Librini #47 ‑ Settembre nero
di gatti scomparsi, parole eterne e vibrazioni sulla Muraglia cinese
*** Il brano che stai per leggere è originale, di Sveva Borla. ***
Lucio adorato,
mi sembra incredibile parlarti così, adesso che non puoi più sentire la mia voce, adesso che probabilmente mi odierai per questa lettera ritrovata fra le pagine del libro che stavi leggendo in ospedale ultimamente. I racconti di Italo Calvino: ottima scelta, tornare a rifugiarsi in Calvino, nei momenti difficili.
Ti immagino, sai, steso finalmente sul divano, dopo una lunga giornata mesta, durante la quale però avrai di certo esagerato nel fare il meglio, con i tuoi studenti al conservatorio. Riposati, amore, lavori sempre troppo. E so che questi ultimi mesi sono stati insostenibili a causa del peggioramento della mia malattia.
Mi sarebbe tanto piaciuto averti di nuovo a casa con noi per qualche tempo, saperti nel letto di quand’eri ragazzo. Saresti venuto tu a darmi un bacio sulla fronte, a rimboccare le mie coperte, come facevo io quando eri piccolo. Invece ti ho costretto a questo capezzale impersonale, a questo posto triste che per noi sa solo di fine. Ho sempre detestato gli ospedali e guarda come sono finita. È solo grazie alla tua gioia di vivere e alla tua musica che ho potuto sopportare la tristezza di queste pareti verdine, Lulù mio.
Se avessi potuto finire in pace, nel mio letto, so che saresti venuto a portarmi acqua fresca e tisane nella mia tazza preferita, ad aprire un po’ le finestre per cambiare aria, a sostituire le federe e a scegliermi i libri, come facevo io quando eri malato e restavi a casa da scuola. Ricordo che mi era impossibile concentrarmi e buttare giù anche solo due righe, sapendoti accaldato, rosso e ansimante nella tua stanza. Erano quelle mattine, in cui accendevo almeno dieci sigarette, attingendo dal tesoretto nascosto nel vaso peruviano sullo scaffale più alto della libreria. Papà e io lo avevamo riportato dal viaggio di nozze, quel vaso, e per un lungo periodo lo avevamo tenuto come centro tavola nella nostra vecchia casa che però sembrava nuova perché eravamo diventati degli sposini; eravamo ancora a Parigi, notre ville de la liberté.
Era come un simbolo del nostro amore, che poi, con gli anni, è salito ai piani alti della libreria, scalzato dal resto delle cose della vita, in primis le tue manine veloci. Io l’ho sempre avuto a cuore, quel vaso, ed è per questo che ci nascondevo segreti. Le sigarette, per esempio. Ma anche qualcos’altro, di cui ti sto per dire. Sì, Mamma ha un segreto, l’avresti mai detto? Ma prima ti voglio raccontare ancora qualche altra sciocchezza: voglio stare un po’ così, con te, dolcemente a ricordare la vita andata, le piccolezze successe, le gioie, le rinunce.
Avevo smesso di fumare perché a Papà proprio non piaceva: diceva che anche se era affascinato dalla mia velocità e grazia nel mettere insieme una sottile sigaretta con cartine, tabacco e biglietti del metro parigino arrotolati come minuscoli cannocchiali, la puzza dentro al nostro appartamento da 35 metri quadri era insopportabile. 35 metri quadri, ci pensi? Quanto siamo stati felici, ammassati e squattrinati in quella topaia francese con mattoni a vista, muffa al soffitto e una vista impareggiabile? Insomma, gli avevo detto Io smetto di fumare e tu mi regali il mio micio, un gatto nero con le zampette bianche che avevo visto cento volte al gattile che si trovava all’angolo, vicino alla redazione del giornale. Fu così che prendemmo Caio, o Gaio come ci piaceva chiamare quella palla di pelo miagolante che sembrava un pagliaccio più che un felino. Non ci sfiorò neanche per un istante l’idea di dargli un nome franzoso. Almeno su quello, eravamo d’accordo. Così il fumo lasciò spazio alle fusa; fu uno scambio equo. Tu non puoi ricordartelo perché Caio scappò un giorno quando eri piccolo piccolo. Non ci siamo mai dati pace per quella fuga, Papà e io. Non sapevamo niente di gatti, in effetti: forse sbagliavamo crocchette, forse non gli cambiavamo abbastanza la lettiera. Fatto sta che Caio–Gaio un giorno se ne andò e noi restammo un po’ sbigottiti, un po’ feriti, increduli. Tappezzammo il quartiere di quei volantini mesti in cui il nostro micio poteva essere qualsiasi altro micio e ovviamente nessuno mai ci telefonò per dirci Je l’ai vu au bout de la rue, per esempio, o magari ad abbuffarsi di crocchette al caviale sul balconcino di un’altra famiglia.
Comunque, nel frattempo eri arrivato tu e noi eravamo esausti e senza sonno e disperati per altri motivi, per cui ce ne facemmo una ragione. E non adottammo mai più altri animali. Ad eccezione di quel pesciolino rosso che durò all’incirca due settimane, te lo ricordi? Come lo avevi chiamato? Rufus, mi pare, o qualcosa del genere. Perché poi?! Lo avevi portato a casa un pomeriggio di ottobre, che il Nonno Mario ti aveva portato al Luna Park. Abitavamo già a Roma. Eravamo tornati da Parigi prima che tu cominciassi l’asilo. Io avevo avuto nuove opportunità con la casa editrice e Papà non ne poteva più delle clienti francesi; se n’è lamentato per anni.
È strano come vadano le cose, Lucio mio, siamo andati in giro una vita e poi, quand’è stata ora di decidere quale strada prendere davvero, siamo tornati indietro, sui nostri passi, da dove eravamo venuti.
Ma a Parigi dobbiamo uno dei giorni più estremi e irripetibili della nostra vita. Ricordo ancora quando scoprimmo di aspettarti: era una giornata dal cielo fitto, biancastro. Il nostro appartamento dell’epoca, lo sai, era minuscolo ma molto curato. Io avevo già un debole per le cose belle e compravo tutto ciò che possedevamo ai marchés aux puces. Di ritorno dal bagno, mi versai una tazza di caffè e dissi a Marco Ho una notizia terribile e una incredibile. Quale vuoi sentire prima? Lui era assorto in un manuale di Ortopedia in francese, lo abbiamo ancora a casa, sullo scaffale dedicato ai libri noiosi. Posandolo, mi guardò confuso e rispose di voler subito sapere cosa avessi combinato; così gli dissi che non avremmo più potuto bere neanche un sorso di vino per un bel po’ di tempo. Rilassando la fronte, poiché conoscendomi si aspettava qualsiasi cosa, chiese per quanto tempo. E dalla riposta che gli diedi venne fuori, come un bocciolo che si apre all’improvviso, anche la notizia incredibile del tuo arrivo. Ci prendemmo una giornata libera e festeggiammo fino a sera come solo le giovani coppie sanno fare, andando in giro a fare niente e senza dirsi nulla dimostrarsi tutto.
Eravamo pieni di speranze, soprattutto senza grandi soldi ma sicuri che qualcosa di meglio sarebbe arrivato. Era l’epoca in cui mi pagavano pochi franchi per scrivere e Papà lavorava in una rinomata quanto da lui detestata palestra a Montmartre. Ci eravamo conosciuti lì, dove lui si occupava delle abbienti Parigotes e io ero stata mandata per scrivere l’ennesimo futile articolo di lifestyle. Ma, insomma, allora non si chiamava ancora così, anche se le sciocchezze di cui parlavano i giornali erano tali e quali a quelle di oggi. Era più bello, però, sai, non c’era tutta quella pressione dei social media che adesso avete voi giovani, sin dall’inizio delle vostre vite ignare del mondo in cui state per fare capolino. Ho sempre pensato questo, guardandoti crescere, e fare i tuoi primi esperimenti di vita: non sei mai stato tanto libero come Papà e io siamo stati.
Come madre ho provato a mettermi in discussione di continuo e mi sono sempre imposta di lasciarti quello spazio: non soccorrerti immediatamente quando da piccolino inciampavi correndo dietro alla palla, non sollevarti in cima allo scivolo per evitarti la fatica e regalarti subito la meta per scivolare tranquillo. Mi sono trattenuta dal riempire i tuoi silenzi quando hai cominciato a crescere e ho lasciato ai libri il compito di dirti cosa ritenevo fosse importante che sapessi. Quanti biglietti ho disseminato negli anni? Nella cartella, sul retro dei biglietti dell’autobus, sul tovagliolo della colazione, a volte sullo specchio del bagno con la matita per le labbra, su centinaia di post it, cartoline, segnalibri, foto che ho lasciato scivolare ovunque sul tuo cammino perché ti accompagnassero al posto mio. Mamma c’è, Lucio, luce della mia vita. Vai sereno, quando lo desideri, dove senti.
Chissà poi se sono riuscita a farlo sempre con generosità, nel modo più appropriato per te? Non è stato sempre facile, sai: quando hai cominciato a diventare più alto di me, quando sul tuo mento è spuntata la barba che da sempre ti è piaciuto portare incolta, quando la tua voce si è abbassata, quando hai smesso di abbracciarmi con il trasporto dell’infanzia ho sofferto a percepirmi invecchiare e allo stesso tempo non passava giorno in cui mi sentissi sollevata all’idea di saperti il giovane sano e forte, così ricco di personalità che sei diventato. Devo ringraziare la scrittura e le parole, tutte le parole che ho letto nella vita, quelle che ho scritto e quelle che ho ricopiato per dedicartele. Mi piace pensare che i tuoi meriti siano anche frutto del mio amore e delle mie attenzioni. Ma chissà se è così? Ma certo che no: avresti comunque composto musica come fai ora e il tuo linguaggio che a me è oscuro è però universale, al contrario del mio. Starei ore ad ascoltarti e a osservare quel tuo ciuffo chiaro che ti pende sulla fronte mentre ti pieghi sui tasti, sempre allo stesso modo, da quand’eri bambino; e ogni volta rimango incantata dal dondolare di quel tuo orecchino, che Papà non prese bene quando tornasti dall’Argentina. Non ho mai detto niente per non dispiacerlo, ma tu sai che io, che sono una vecchia ragazza, penso proprio che ti dia quel tocco non so che, Lulù mio.
Perdonami se ti sembro perdere tempo a parlare di tutto e niente. Di tempo non ne ho più, lo sai. Per la verità, tecnicamente è già scaduto perché mentre leggi queste righe io non esisto più come tua madre, come mi hai pensata finora. Lo sapevamo che questo momento sarebbe arrivato prima del previsto, prima dei nostri desideri. Abbiamo avuto anche la fortuna di poterci preparare, però, tu io e Papà. Il più grande rimpianto in questa vita, amore mio, è di non averti potuto donare l’affetto e la compagnia di un fratello o di una sorella. Papà e io ci abbiamo provato ma, come sai, le mie condizioni non me lo hanno permesso, e sono le stesse per le quali me ne sarò andata prima del tempo, lasciandoti solo a leggere questa lettera, oggi.
Lo so, lo so che già ti sto intristendo, cuore mio. Perdonami di nuovo. È che non riesco a credere che sia arrivato questo momento, in cui mi trovo a scrivere le ultime cose che ho da dire. È difficile, perché non sarebbero le ultime, il Cielo solo sa quanto ancora avrei da dire, ridere, vivere, scrivere. Ma sento che questo è davvero l’ultimo biglietto che ti posso dedicare e la caccia al tesoro per trovarlo non sarà entusiasmante come quelle che ho immaginato per te da sempre, a ogni compleanno, a ogni inizio di nuovo ciclo di studi, a ogni ultimo giorno di scuola, a ogni San Valentino, a ogni giorno qualunque. Posso solo aspettare che tu vada a bere un orrendo e dolciastro caffè dalla macchinetta nel corridoio del reparto e lasciar scivolare la pagina piegata nel tuo Calvino.
Questo foglio bianco viene dal libro che hai trovato sul comodino dell’ospedale, dal libro che non avrò finito di leggere, temo. Si intitola Les Annees di Annie Ernaux e mi stava piacendo assai. Sono contenta di averlo vicino in questi ultimi giorni. Le parole sono importanti, te lo insegno da sempre e ho tanto timore che quelle che sto usando adesso, che devono occupare lo spazio di questo foglio poroso, fronte e retro, non un centimetro di più, non siano quelle giuste, non siano abbastanza. Abbastanza belle, ricche, pregne, importanti, determinanti, esaurienti, abbastanza amorose. La verità è che ho passato la vita a scrivere parole, milioni di lettere, in italiano e in francese, prima per i miei articoli e poi nei libri. La cosa incredibile è che tutte queste parole esisteranno per sempre perché ho avuto l’ardire di imprimerle da qualche parte, di rivolgerle a qualcuno. Ed è proprio per questo che non posso lasciarti andare prima di dirti ancora una cosa, Lucio adorato.
Vorrei mettere nero su bianco, anche se questa biro dell’ospedale ha l’inchiostro blu, vorrei insomma dirti di qualcosa che non sai. Una verità che desidero seminare sul tuo cammino perché tu la possa cogliere e custodire. E perché, adesso, al termine dei miei giorni, desidero vederla esistere di nuovo. E perciò le dò un corpo ora allungato ora arrotondato con la mia grafia. Il segreto di Mamma che non sai sta dentro a quel vaso peruviano. Un giorno, senza farne tanto cine con Papà, vai a cercarlo: lo troverai sempre lì, sullo scaffale più alto della libreria, nel mio studio. Papà non lo avrà toccato di certo. Troverai dentro un pacchetto di tabacco, un accendino, qualche filtro e delle cartine. La verità è che avevo smesso di fumare quando arrivò Caio Gaio, ma in ogni momento di tensione ho dovuto tornare a quel gesto che affascinava tanto il mio Marco. Ho acceso decine di sigarette negli anni, senza fumarle, come quelle mattine durante le quali eri ammalato, facendo solo il primo tiro necessario a che s’accendessero e poi le buttavo intere e spente, secche e maleodoranti, dopo averle tenute fra le dita un bel po’ e aver passeggiato, consumando il pavimento del terrazzo che dà sul mio studio. Ma questo adesso non è importante. Anche se, cosa dico? Adesso che me ne sto andando tutto è importante, Lucio, e non so come fare a dire addio.
Il foglio sta per terminare e con esso la mia possibilità di esistere ancora e per sempre, di non lasciarti. Ma ti devo ancora dire questo segreto che ti ho promesso. Vai a guardare nel vaso e lascia stare le sigarette. Troverai una scatola di latta delle sardine (sai che ho sempre avuto la mania delle belle scatole). Aprila e dentro troverai una foto e una pietra irregolare e sbocconcellata, un tocco di muro che ha continuato a perdere pezzi e briciole. La foto è di un’ottima carta fotografica Kodak dalla rifinitura opaca, un po’ granulosa. È datata. Aprila. È l’immagine di un ragazzo bruno, seduto per terra sotto a quello che sembra una specie di porticato e dietro di lui una lunga strada all’aperto, come un ponte. Natura intorno. La foto è un po’ graffiata e il ragazzo si tiene le ginocchia raccolte al petto; ha un cappuccio in testa, bordeaux, e il collo alto di un maglione copre il suo sorriso, ma si capisce dal suo sguardo sfocato che sta sorridendo. Poco distante da lui qualche avanzo di un pasto arrangiato, precisamente del pane qualsiasi, cioccolato italiano, della migliore qualità piemontese, e una bottiglia di vino rosso francese, non ricordo più quale. Un fuocherello accesso. Eravamo riusciti ad accendere un fuoco in quel luogo incredibile, in quel tratto di Muraglia cinese nel quale ho passato la notte. Una notte, quando avevo vent’anni, con Jacques, il ragazzo ricciolo della foto, che ne aveva ventitrè, di anni. Ci eravamo conosciuti a un esame di Filologia Francese. Era bastato uno sguardo per rimanere folgorata da lui. E lui da me. Avevo una treccia lunga che portavo da un lato e una fascia color glicine nei capelli, me lo ricordo ancora. Passai brillantemente l’esame, lui fu bocciato. Lo aiutai a ripeterlo. C’innamorammo come matti, Lucio. Lo so che forse non è il genere di segreto che aspetti di sentirti raccontare da tua madre in punto di morte. Un segreto che poi non è che sia ‘sto gran segreto; Papà sarebbe arrivato svariati anni dopo. Ma io ho conservato fra i segreti le briciole di quel muro e quell’amore. Li ho tenuti per me, preziosi, intoccabili.
Abbi pazienza, non posso più tenermi questa scatola di sardine solo per me perché qui si tratta di spingere la vita più in là. Jacques e io eravamo giovani e folli, innamoratissimi e pieni di progetti senza poterne fare davvero. Per questo partimmo per quel viaggio assurdo e indimenticabile, mettendo insieme il minimo dei soldi che ci servivano per raggiungere l’Asia. Un’impresa indicibile a quel tempo. Ma noi potevamo tutto, Lucio, perché eravamo vibranti ed entusiasti. Ci nascondemmo ai controlli, una notte. Avevamo programmato tutto e io avevo portato quella tavoletta di cioccolato dall’Europa. Jacques ci teneva che il vino fosse francese e spese un capitale per quella bottiglia fuori dalla Francia. Come faccio a non ricordarmi l’etichetta? Non puoi immaginare la nostra euforia e il senso di completezza e pace mentre ci stringevamo nei nostri giubbotti troppo leggeri, quella notte, in un punto indefinito della Muraglia. Avevamo anche un sacco a pelo, era blu. Lo persi, in qualche trasloco. Scattai la foto di Jacques all’alba, dopo una veglia trascorsa al riparo da tutto su un tratto di mondo mitico. Ogni cosa allora ci parve perfetta, compiuta, possibile, in armonia. E questo è ciò che basta a dare senso a tutta una vita.
Non sto qui a dirti che non ho amato allo stesso modo Papà, non si tratta di questo. Si tratta di quel brivido vitale che percorre la schiena di ognuno di noi una volta almeno nella vita ed è per quella sensazione che si vivono gli anni a venire: per ritrovarla, per ricordarla, per raccontarla. Anche Papà, sono certa, avrà una storia simile custodita, a suo modo, nel suo cuore. Un giorno forse, te la racconterà e ti chiederà di farne tesoro, come me oggi. E io non sono gelosa. Non posso esserlo. È il suo brivido privato che lo ha reso la persona meravigliosa che ho scelto sino a ora. Vai anche tu in cerca del tuo, Lucio, riconoscilo e non perderlo.
Sono giunta, amore mio. Ho rubato ogni margine, ho scritto piccolo piccolo ma sono arrivata alla fine. Perdonami per gli anni che non vedrò. Perdonami per i messaggi che non disseminerò. Prendi quella scatola di sardine dal vaso peruviano e aprila ogni volta in cui ti sembrerà che sia lontana. Mi troverai fortissima e viva nel sorriso di quel ragazzo. Quel ragazzo che potresti essere tu.
Col cuore pieno di gratitudine,
la Mamma, per sempre
Anche se non puoi sempre ricordare perché sei stato felice / Non puoi dimenticarti d’esserlo stato. W.H. Auden
È una delle citazioni tesoro che si riscoprono nell’ultimo romanzo di Sandro Veronesi, Settembre nero, uscito nell’ottobre del 2024 per La Nave di Teseo.
Un romanzo di formazione dolce e innocente in cui il protagonista oramai sessantenne, Gigio Bellandi, racconta di quell’ultima estate del 1972 vissuta nella grazia e armonia dell’infanzia, prima di crescere di colpo a causa di un evento traumatico. Questa cesura, preconizzata sin dall’inizio del romanzo e sapientemente ricordata più volte con lo scorrere della pagine, mantiene alta la tensione del lettore per più di due terzi del libro: mentre seguiamo le vicende estive di una serena famiglia qualsiasi che da Vinci si trasferisce a Fiumetto per le vacanze, percepiamo la densità di ogni frase, ricca di dettagli, profumi, telecronache, eventi e riferimenti a usi e costumi di un’Italia andata. Una narrazione che senza mai annoiare rallenta l’occhio e chiede di aspettare, di godersi il bello del viaggio prima di schiantarsi contro la tragedia.
Questo è il primo grande pregio del romanzo, un invito alla lentezza e un ripetuto richiamo alla necessità di dilatare il tempo per poter ricordare e dare il giusto spazio alle piccole cose della vita quotidiana, quelle di un ragazzino in un momento determinante per la sua vita, subito prima del passaggio all’età adulta.
Se fin qui vi ho raccontato tutte queste piccole cose non è perché le consideri importanti in sé — so bene che non lo sono —, ma perché vi rendiate conto di chi ero io a quel tempo e di cosa era composta la mia vita, al culmine della mia infanzia, anzi già un poco oltre, a dodici anni, nell’estate del ‘72; e così facendo, sforzandomi di ricordarle per raccontarle a voi, me ne rendo conto anch’io. Soprattutto quando ci si ritrova molto distanti da ciò che si è stati un tempo, come è successo a me, ricordarsi di quel tempo è importante; e se si trattava di un tempo fatto di piccole cose, come è stato per me, anche quelle piccole cose diventano importanti.
Questo ragazzino che si racconta da più che adulto sembra di averlo davanti, vividissimo, Luigi Bellandi, nel candore e nell’inquietudine della sua quasi adolescenza. Quando mai le piccole cose della vita non sono state importanti, Gigio? Prenditi il tempo che serve e raccontami tutto di quei mesi caldi in Versilia, della tua voglia di essere ancora un bambino increspata dai nuovi interessi da ragazzo. Dimmi ancora del tuo giradischi e della musica nuova che hai imparato a conoscere; raccontami di linus e dell’Eternauta e dei giochi segreti con le tue parole preferite, della caccia al tesoro sotto le cabine del Bagno Stella. Non sono che orecchi per ascoltare della tua passione per lo sport, delle partite di biglie con dentro i ciclisti, dell’ardore nell’attesa delle Olimpiadi di Monaco. Ma specialmente, non tacermi del tuo primo amore, delle treccine di Astel Raimondi, la tua vicina d’ombrellone, e del salto in alto e nel vuoto che sempre fa compiere l’innamoramento.
[…] con Astel vicino io non soltanto ero felice ma ero anche migliore: più sveglio, più ispirato, più degno d’attenzione. Il che mi faceva fare un decisivo passo avanti anche verso la risposta da dare alla domanda delle domande: perché una ragazza come Astel Raimondi provava interesse per uno come me? Per rispondere a questa domanda c’era bisogno di qualcosa di cui fin lì io avevo perfino ignorato l’esistenza: l’autostima.
Astel Raimondi ha un anno più del protagonista quando ricompare finalmente in spiaggia dopo un viaggio studio per imparare l’inglese. Ha treccine lucide e nere, papà italiano e mamma etiope, denti bianchissimi, le idee chiare e uno spasmodico interesse a tradurre tutti i libri e le canzoni inglesi di cui viene a conoscenza. Gigio Bellandi, papà italiano e mamma irlandese, ha riccioli scuri e carnagione olivastra, nulla del rutilismo che caratterizza sua sorella Gilda, ma la lingua inglese la conosce senza sforzo e così diventa l’attrazione principale dell’estate di Astel.
[…] nei pomeriggi trascorsi con lei, a leggere, ad ascoltare la musica e a ballare, in casa, in giardino, a giocare con il suo cane, a parlare e a conoscere il suo mondo — a non capacitarmi di farne parte anch’io. I miei piedi non toccavano terra — volavo.
Ero impegnato oltre le mie possibilità, questo sì: temevo in ogni momento di sbagliare qualcosa e rivelare la mia pochezza — e tuttavia non sbagliavo nulla, e il nulla che mi ero sempre sentito di essere diventava qualcosa.
Settembre comincia solo a pagina 205 e fino a quel momento la vita di Gigio e Astel è esattamente quello che dovrebbe essere. Ed è un piacere leggerla, e restare un po’ appollaiati sulla vita a goderne con loro.
Restammo lassù per un bel po’, quel primo giorno, nella casetta sul cedro, a guardare il mio terrazzo, gli altri giardini, il cielo striato di nubi, una striscia di mare graffiata dalla brezza del pomeriggio, ma soprattutto a guardarci l’un l’altra, ognuno aspettando che l’altro prendesse l’iniziativa senza che nessuno lo facesse. E non fu doloroso — al contrario: constatare che nemmeno lei era pronta risultò un sollievo, e mi permise di godere ancor più profondamente della sua bellezza, di stamparmela nella memoria in un modo così indelebile che ancora oggi la rivedo tutta intera: le treccine lucide con i nastri colorati, le venature dorate in fondo al nero degli occhi, la bocca socchiusa, benevola, i denti bianchissimi, immacolati, perfetti. Se mi chiedessero di dire quale sia stato il singolo momento della mia prima vita in cui sono stato più felice, direi quello. Sul cedro. A guardare Astel da vicino. A non baciarla.
Troverete decine di recensioni di Settembre nero e tutte vi parleranno specialmente dello sfondo storico in cui si dipanano gli eventi, quelle Olimpiadi di Monaco macchiate di rosso a causa dell’attentato terroristico dell’organizzazione palestinese Settembre Nero a danno degli atleti israeliani che vennero uccisi nel villaggio olimpico, il 5 settembre del 1972. Vi parleranno dell’abbandono dell’innocenza nella parabola di crescita del personaggio principale, dell’impatto degli eventi storici sulla vita individuale. Insisteranno sulla rappresentazione di una certa Italia borghese, sul contesto storico e sociale degli anni Settanta, mettendo in luce i segreti e le ombre che si celano dietro l’apparente normalità familiare. Vi diranno che Veronesi non si smentisce e ogni volta riesce a scrivere qualcosa di più meritevole.
Vi diranno tutte cose vere, eppure io qui vi dico che il Settembre nero non esiste, dura un istante, e comunque comincia ben oltre la metà del libro, come dicevo. Questo libro è soprattutto un inno alla vita, alla semplicità e al piacere goduto delle semplici cose come solo i ragazzini sanno fare. È un romanzo in cui l’autore sa descrivere l’estate attraverso i suoi odori, di plastica, gomma, nylon. L’odore del sole, lo chiamano Gigio e Gilda. È un libro che non teme di annoiare con le descrizioni delle piccolezze. Un libro che ci tiene a ricordare tanti nomi, di atleti, competizioni, musicisti e canzoni, e anche se uno non sapesse nemmeno di che colore è la Gazzetta dello Sport legge volentieri cos’ha da dire Gigio a riguardo.
Veronesi ci regala una piccola perla, densa di vita e popolata di personaggi assai vividi. Lo zio Giotti, l’adulto sui generis che aiuta il traghettamento del bambino sulle sponde della maturità. La Mamma irlandese, fiera, dolce e sconsiderata. La sorellina Gilda,
già allora una di quelle persone speciali che hanno accesso diretto alla verità e tra mille domande che ci si potrebbe fare dinanzi a un qualunque mistero si fanno subito quella giusta. Io invece ero quello che si faceva tutte le altre.
Il papà istrione e appassionato,
un dilettante, nel senso proprio etimologico del termine, che ha a che fare col delicere, e cioè sedurre, allettare, tirare a sé col laccio. Del dilettante possedeva la passione contagiosa e la gioia di esserci, la spensieratezza e la nobiltà d’animo, ma anche la superficialità, la fatuità, l’improvvisazione e a volte la sprovvedutezza.
Con queste parole Gigio Bellandi introduce nelle primissime pagine un concetto che servirà per capire il capitolare degli eventi che da un momento all’altro modificheranno la vita e la serenità di un’intera famiglia.
Fra una telecronaca e la traduzione del testo di una canzone inglese, questo romanzo delicato e fresco, oserei dire spensierato, è un’ode alla lentezza che serve per recuperare le piccole cose. Sembra quasi che i fatti drammatici che modificano irrimediabilmente la vita del protagonista servano solo da movente per il lettore, per convincerlo a legger oltre e lasciare il tempo e lo spazio al protagonista di ricordarsi.
È anche un romanzo sul valore delle parole: l’italiano e l’inglese, la traduzione impossibile di certe canzoni ILIG (Incomprehensible Lyrics Irresistible Groove), i giochi dei ragazzi con le parole preferite, le sfumature di significato, le citazioni come quella tratta dall’Eternauta e tanto cara a Gigio, ogni uomo torna a nascere.
Anche io terrò a cuore molti brani di questo bel romanzo e grazie al sottofondo dei consigli musicali di Astel e Gigio ho immaginato, rimuginato e scritto con molto cuore il brano che hai letto in apertura di questa puntata di Librini. Per nostalgici e romantici. E anche per tutti gli altri.
Ci baciammo come se ci fossimo già baciati tutte le volte in cui non l’avevamo fatto.
Facciamo tutti così, selezioniamo alcuni tra i nostri ricordi per il loro valore simbolico, li manipoliamo e li fissiamo nella memoria con tale precisione da farne l’emblema di un’intera stagione della nostra vita.