*** Il brano che stai per leggere è originale, scritto da Sveva Borla. ***
Quando Arjun risale dopo decenni sull’autobus della sua adolescenza, non è l’orario di punta dei suoi ricordi e può scegliere senza fatica il posto migliore dove sedersi. Il posto migliore sull’autobus è sempre stato qualcosa di determinante per lui, per Kabir, e anche per Elsa, a un certo punto della loro amicizia.
In un battito di ciglia è l’inizio degli anni Novanta e l’autobus accosta lento, con uno sbuffo apre le sue porte. I due ragazzi salgono svogliatamente. È molto presto. Sono vestiti allo stesso modo, o quasi. I giacconi scuri sono aperti e lasciano intravedere i colletti delle camicie bianche che risplendono sulle loro gole più che ambrate. I maglioni grigio antracite hanno lo scollo a V, i pantaloni sono dritti, con la piega nel centro e anche le pence. Le scarpe di entrambi sono nere, dei mocassini poco adatti all’età dei due giovani, calzature inadeguate ai salti e alle corse, all’entusiasmo della loro giovane età. Un paio è più rovinato dell’altro, perché Arjun non ha in sorte la stessa prosperità dei suoi coetanei e compagni di scuola. È solo il figlio della governante; vive nella stessa città, abita nello stesso quartiere, ha le stesse origini e la stessa voglia di svago dei suoi amici, ma lui e sua madre occupano un posto per caso nella villa in cui Kabir è nato, e per questo è come se di diritto è a lui che spettasse una fortuna maggiore nella vita.
Mentre si siede accanto al finestrino, Arjun ha davanti agli occhi un passato mai sbiadito. Sentimenti mai dimenticati. Adesso porta gli occhiali che da ragazzo non gli servivano e qualche striatura grigio perla macchia irrimediabilmente i lati del suo volto, schiarendo i capelli neri che però sono ancora folti come quando aveva quindici anni.
È mattino presto e Arjun e Kabir salgono sull’autobus con quella flemma tipica dell’adolescenza a metà giornata, a metà settimana. Kabir si aggrappa al palo centrale freddo d’inverno e prova a tirare sù tutto il suo corpo con la sola forza del braccio sinistro, quello debole. Mette in scena questa prova ogni mattina e Arjun pacatamente aspetta dietro l’amico il suo turno per salire sul mezzo. Di solito gli tocca spingere Kabir dentro all’autobus con entrambe le mani, ricevendo il suo zaino pesante come fosse un pallone. Kabir sa che Arjun, ogni mattina, non si scosterà, che lo sorreggerà; e ogni mattina Arjun non sa se Kabir farà finta di non farcela oppure avrà con sé più libri del solito. Si è sempre definita così la loro relazione, sin da bambini. Kabir quello allegro e burlone, saldo nella certezza della sua fortuna. E Arjun mansueto e guardingo, quello timido e sempre in debito.
Col grumo di scanzonato disagio con cui i ragazzi fanno tutto alla loro età, i due si lasciano cadere, uno dopo l’altro, sui sedili migliori, disposti sopraelevati sulla ruota dell’autobus, da dove la vista del panorama lungo il tragitto è migliore, dove specie non rischiano che i loro nasi si trovino troppo vicini alle teste della gente. Arjun e Kabir scelgono i posti sopraelevati sull’autobus perché entrambi odiano l’odore stantio dei capelli degli altri, quello che a volte si sente in qualche taxi che corre per il centro della città e che rende l’aria viziata, se non proprio irrespirabile nell’abitacolo, un odore penetrato nei sedili e duro a cancellarsi. Loro lo detestano, e non perché siano avvezzi ai taxi ma perché a forza di fare avanti e indietro hanno stilato un inventario preciso di ogni effluvio rilevabile sui mezzi publici, in una scala che va dal più innocuo al più sgradevole; nessuno buono. E, secondo la loro esperienza, i capelli sporchi sono una variabile tanto comune quanto fastidiosa.
Kabir e Arjun sono fra i pochi ragazzi indiani che nel loro paese europeo usano i mezzi pubblici per raggiungere la scuola internazionale più rinomata della città che frequentano sin dall’asilo, prendendo ogni giorno quel 47E da una collina all’altra per 12 fermate. Per 8 fermate in alcuni casi precisi: durante la bella stagione di modo da godere degli alberi in fiore nelle giornate primaverili, per discutere di qualche argomento delicato lungo la strada o ancora le poche volte in cui uno dei due aveva da ridire con l’altro e non desiderava fare il tragitto insieme. Fra loro parlano inglese: l’indù è solo per casa, per i discorsi familiari, per le ramanzine e per le feste comandate. L’inglese invece è la lingua della loro giovinezza, della socialità, dell’emancipazione e della libertà. È anche la lingua con la quale imparare le cose del mondo e confrontarsi con i coetanei. Ma soprattutto è la lingua con la quale da sempre possono comunicare con lei.
Mentre l’immagine di Elsa e il profumo dei suoi capelli si materializzano nella mente di Arjun, l’autobus svolta l’ultima curva e l’edificio in mattoncini rossi e infissi ocra si materializza in lontananza, enorme come allora, dietro al solito nugolo di alberi frondosi, sul punto più alto della collina. Un sobbalzo scuote l′uomo, richiamato dai suoi pensieri: è già quasi arrivato all’altezza del ponte e senza sorpresa scopre che nulla è cambiato del panorama che ricordava.
Elsa si era seduta di fronte a loro sull’autobus sin dal primo giorno della High School. Saliva a sole tre fermate dalla scuola e prima di sedersi nel posto singolo più vicino alle porte, tenendosi appesa al palo, compiva una sorta di piroetta facendo perno su uno degli avampiedi. Un vezzo che non aveva lasciato indifferente Kabir, il quale — come detto — s’impegnava ogni giorno in qualcosa di simile, seppur con atteggiamento meno leggiadro. Solo quando era definitivamente accomodata, Elsa staccava la mano dal palo e si lasciava scivolare in avanti per appoggiare meglio la schiena. È in tutto quello spostamento d’aria che Kabir e Arjun sin dal primo giorno percepirono il profumo dei suoi capelli che in un istante era stato in grado di cancellare dalla loro mente la lunga lista degli odori sgradevoli percepibili sui mezzi pubblici, convincendoli ad aggiungere all’elenco una sola eccezione chiamata Elsa.
Di Berlino, ha una gonna a pieghe dello stesso colore dei loro pantaloni e calze spesse e attillate le fasciano le gambe allenate. I capelli sono biondi, dritti e lunghissimi: come una tenda di seta si spostano a ogni suo movimento, ora coprendo gli occhi nocciola e le sopracciglia folte, ora svelando il collo affusolato da cui pende una sottile catenina d’oro. La residenza dell’ambasciatore tedesco è a pochi minuti dalla scuola internazionale, per questo il padre ha acconsentito che la ragazza ci andasse senza scorta sin dal primo giorno. È proprio Elsa a spiegarlo a Kabir e Arjun quando si accorge di due paia d’occhi fissi sulla sua nuca, la mattina del loro incontro.
Cos’avete da guardare? È tutta l’estate che provo a convincere mio padre che andare a scuola con l’autista è una scemenza. Non sarete certo voi due adesso a farmi cambiare idea. Fece una pausa e poi si voltò per guardare i due ragazzi: Com’è che voi non venite in macchina? Dopo un attimo tornò a dar loro le spalle senza neanche aver teso la mano. Comunque sembra che abbiamo qualcosa in comune. Piacere, io sono Elsa. Concluse.
Il suo inglese era pulito e forbito, con un lievissimo accento germanico che ammantava di fascino la sua persona. Aveva pronunciato quella frase senza la minima esitazione e con una certa furbizia nello sguardo: aveva negli occhi il piglio di chi sa cosa vuole e non ha paura di prenderselo. Al suo confronto, Kabir e Arjun si sentirono d’improvviso e all’unisono due ragazzini sprovveduti, dediti a cose che in un attimo sembravano essere diventate di poco conto. Anzi, di cose che in un attimo sembravano essere diventate d’intralcio; anche se ancora non era chiaro a che cosa.
Durò un attimo, e fu nello spazio di quell’autobus grigio e blu che risaliva la collina sempre alla stessa ora, che fu lampante ai tre giovani, vestiti uguali ad altre decine di loro coetanei e impacciati tutti allo stesso modo nei tessuti rigidi che li volevano omologati, che ci fosse in loro, in loro tre, qualcosa di unico che li avrebbe legati per il resto della vita in un vincolo indissolubile.
Che shampoo usi? le chiese Kabir. Che te ne importa? rispose secca lei. Niente, è che sull’autobus non si era mai sentito un profumo così. Sono Arjun, lui è Kabir. Molto piacere, Elsa.
Arjun prenota la fermata ed è il solo a scendere davanti all’ingresso imponente. È domenica. È estate. Affissi alle cancellate risaltano enormi pannelli che all’epoca non c’erano: commemorano il centenario dalla fondazione della scuola; uno slogan da pubblicità invita future matricole ad affidarsi all’esperienza dell’istituzione e un quadrato pixellato funge da garanzia di modernità.
Fa qualche passo verso le strisce e va a sedersi sulla panchina della sua adolescenza, sul lato opposto della strada, defilata ma comoda come un palchetto a teatro. È accasciati su quella panchina, all’ombra del grande faggio, che lui e Kabir andavano a spartire la merenda, poi a scambiarsi compiti, figurine, fumetti e piccoli oggetti di cancelleria. È sempre su quella panchina che si aspettavano l′un l′altro per tornare insieme a casa. Lì che si riunivano per parlare di sport e, più tardi, di ragazze. Sempre sulle stesse travi di legno, seduti a fumare e ascoltare musica, con una birra in mano di sabato sera, e poi vestiti eleganti con i diplomi in mano alla fine di quell’ultimo anno.
Il legno usurato graffia i polpacci scoperti di Arjun che si toglie gli occhiali e per un attimo si assenta dal mondo nitido cui è costretto dall’altura della sua età e della sua posizione. Senza l’aiuto delle lenti finalmente quella scuola si scioglie davanti al suo sguardo, i colori si confondono e lui fa il primo respiro profondo della sua vita. L’estate lo invade e così i pensieri di quell’ultima volta. Sono sbiaditi, adesso, mentre escono gioiosi tenendosi per mano, loro che non credevano di essere visti, loro che erano due eppure una cosa sola per lui. Una folata fresca solletica la barba di Arjun che aspetta ancora un istante prima di rimettersi gli occhiali e spingerseli con un gesto svelto e consueto sul naso. Il braccio sfocato scuro e forte di Kabir cinge il fianco di Elsa, la maglietta bianca sulla sua pelle chiara si solleva appena e i capelli fanno il loro solito spettacolo, come un pavone che si gira mentre fa la ruota.
È una scena a rallentatore. Tutto s’abbaglia. È il sole d’agosto. È il biondo dei capelli. È il bruciare del suo orgoglio. È il suo cuore ustionato da sempre che ora comincia a guarire.
Siamo nel 1942 a Tora e Piccilli, un paesino nel casertano i cui abitanti sono analfabeti e pensano che Caserta sia la città più grande del Paese; un posto in cui i maschi e le femmine si sposano e hanno figli e non succede mai che sia una femmina a proteggere un maschio. Eppure è così che Davide Buonasorte, storpio e guardiano di maiali, conosce Teresa Glicine, un anno in più di lui, che lavora nella corderia di suo padre e risulta essere la persona più istruita del paese assieme al maestro Anastasi.
Teresa aiuta Davide a decifrare le cose del mondo mentre lui ruba i quaderni dal furgone di Don Aniello Panzer i giorni del mercato. Teresa gli aveva detto che la carta viene dagli alberi e mentre Davide li nascondeva nel porcile e li annusava, gli sembrava di riconoscere ogni singolo albero in cui si era imbattuto.
Nel porcile fingevo di scrivere. Facevo le asticelle, i cerchi, le linee tratteggiate, poi le lettere che conoscevo e infine fondevo tutto creando quella che poteva sembrare una scrittura. Non sapevo scrivere ma avevo creato una lingua. Quando ogni pagina del quaderno era completamente piena di segni, lo bruciavo nel secchio assieme ai rami trovati nel bosco. Poi andavo a prendere un altro quaderno che tenevo nascosto nella lana del materasso e ricominciavo.
Per Davide scrivere ha a che fare col corpo, come trasportare i secchi d’acqua o spingere il carretto verso il mercato. Teresa gli insegna le prime lettere dell’alfabeto, le moltiplicazioni e le divisioni usando le corde. Tutto quello che Davide conosce lo sa grazie a lei. Poi, un giorno arriva un furgone a Tora e Piccilli e ne scendono trentasei ebrei provenienti da Napoli che si sarebbero dedicati a lavori utili nel paese: non sapevamo niente degli ebrei, ma ci era stato detto che bisognava odiarli.
Quando Nicolas scende dall’autocarro e si copre il volto con la mano per proteggersi dal sole di metà settembre, Davide resta folgorato dalla sua bellezza e colto da uno struggimento cui non sa dare nome. È in quel momento che la vita dello storpio guardiano di maiali comincia a cambiare, molto lentamente eppure inesorabilmente: Davide, che in modo confuso sa di voler imparare a leggere e scrivere per capire la vita, che desidera con tutto se stesso essere accettato dai coetanei, che riconosce la differenza fra il bene e il male ed è allenato alla fatica, immagina di essere il ragazzo ebreo giunto da Napoli; si guarda allo specchio e nel suo volto va in cerca delle possibilità di essere come lui, valutandole nulle.
Nicolas era la prova vivente che tutto quello di cui mi aveva parlato Teresa — le città sepolte dalla lava del vulcano, o quel mare enorme che aveva il nome che sapeva di pane e terra, il Mediterraneo — esisteva. Era la prova di un mondo complesso e impossibile da immaginare, un mondo che poteva essere solo contemplato nella sua bellezza. Desiderai uscire da Tora.
Nicolas vive con suo padre Gioacchino; l’uomo ha messo sù una specie di scuola di cui nessuno deve sapere per far studiare il figlio. Davide bussa alla loro porta, insegna a Nicolas a dipingere una staccionata mentre Gioacchino lo accetta come allievo; così lo storpio impara a leggere e scrivere sui volantini di propaganda fascista rubati al padre. Non ha importanza, gli dice l’ebreo: le parole sono sempre quelle, l’importante è come vengono usate. Il ragazzo amplia il suo vocabolario tanto da poter comprendere che i sentimenti contrastanti nei confronti di Nicolas, che nel frattempo era entrato in teneri rapporti con la sua Teresa, hanno nomi specifici: sono l’invidia, la curiosità, la superbia.
Davide, Teresa e Nicolas, contenuti e trattenuti nel paesino di provincia, non hanno altra scelta che scegliersi e unirsi e, senza poterlo veramente decidere, intrecciano irrimediabilmente i loro destini fino alla fine dei loro giorni. Sembra che le velleità e i desideri, tutte le potenzialità della ragazza di Tora e dell’ebreo di Napoli trovino la luce e il loro compimento nel solo destino del guardiano di maiali. È Davide, acuto e brillante protagonista sporco di fango e maleodorante di porcile, che in questo bellissimo romanzo di formazione ci racconta dalla solitudine della sua prima persona la sua parabola ascendente, con le vittorie, le fatiche, i fantasmi e le debolezze.
Grazie a una prosa delicata e quanto mai raffinata, capace di evocare con grazia immagini poetiche e prospettive lontane, Gianni Solla ci consegna una storia che riconosciamo e che non per questo manchi di lasciarci deliziati sino alle ultime frasi.
Il romanzo è diviso in tre parti, la prima ambientata a Tora e Piccilli, dove la vita è più agreste, graffiante e commovente; in queste pagine impariamo a conoscere i tre giovani e comprendiamo come le loro azioni e i loro desideri li vincolino l’un l’altro, quasi con magia. Emergono qui i temi fondanti del libro, l’amicizia, l’attrazione, il potere catartico ed emancipante della cultura. Tutto nella vita dei protagonisti è molto fisico, materico, anche violento, o è così che Davide ce lo descrive e ce lo porge. Ma in tanta volgarità non mancano mai di emergere come gemme immagini magnifiche in cui crogiolare il pensiero.
Nella mia personale geografia, Teresa e il mare si assomigliavano, perché di tutti e due avevo solo informazioni lontane. Tutto quello che sapevo, lo sapevo perché era stata lei a dirmelo. Mi aveva raccontato delle Alpi, di Pompei e di Ercolano, del Colosseo, delle piramidi, dell’oceano. Da tutti quei posti veniva fuori un pezzetto di lei, sembrava contenuta nelle cose che le piacevano, e forse, come i sentieri del bosco, chiedeva di essere svelata unendo pezzi lontani.
La seconda parte del romanzo è ambientata in una Napoli caotica e ostile in cui Davide scappa nascosto nel furgone di Don Aniello Panzer, quello dal quale rubava i quaderni al mercato. È in quella città piena di segreti, angoli carichi di preghiere o incantesimi, che il protagonista diventa adulto, solo e scafato. Grazie ai rudimenti di matematica e alla sua alfabetizzazione, ottiene uno scatolone come scrivania e un paio di scarpe nuove. Abituato al porcile e all’odore dei maiali, Davide se la sa cavare e poco per volta passa dal dormire per strada a una camera pulciosa tutta per sé. Per caso si unisce a un gruppo teatrale e per caso scopre di essere bravo, il migliore di loro. A Napoli Davide è quanto mai solo a maturare nel ricordo e nell’idealizzazione di Teresa e Nicolas, che in un modo o nell’altro continuano a forgiarne il futuro anche da lontano e dall’oblio. Il guardiano di maiali storpio, quasi per magia, un giorno smette di zoppicare e diventa famoso e acclamato dal pubblico presentandosi in scena con i fantocci di carta dei suoi animali di un tempo. Sono anni nuovi quelli di Napoli in cui tutto luccica di speranza, anche se Davide ha sempre l’aria un po’ triste, che ha come un sapore di antico.
Era impossibile non restare sedotti dalla leggerezza che si respirava in quel periodo. Una leggerezza che non avevo mai conosciuto, quasi un’ubriacatura collettiva. I vestiti erano cambiati e anche la musica. Le cose di poco conto erano diventate essenziali.
La terza e ultima parte racconta di Davide attore e non più claudicante che fa una valigia per pochi giorni e torna a Tora e Piccilli per cercare ancora e sempre Nicolas. In una manciata di pagine in cui sembra che sia sempre mattino presto, l’aria brilli di rugiada e un venticello freddo fenda le penne delle galline nell’aia, in una dimensione onirica sospesa fra cielo terso e zolle di terra coltivate, la storia di Davide, di Teresa e di Nicolas si espande. Arrivano Francesco e poi Antonio. Certe vite proseguono, altre s’interrompono; e a quel punto alcune le abbiamo conosciute mentre altre restano taciute. Quello che è chiaro è che il processo osmotico di conversione sia terminato e compiuto e che tutto, o quasi, appaia nella trasparenza di ciò che è e che era destinato a diventare.
Specchi, doppi, scambi, connessioni di anime e corpi, in questo libro c’è tutto questo e soprattutto la sensazione che per scoprire la luce si debba passare attraverso le ombre più scure.
*** Informazioni di servizio ***
La prima è che, come anticipato, sto per lanciare il Club del Librino, un club del libro online per incontrarci a parlare di libri e storie in nuove forme e con nuove angolature.
Guarda qui e dimmi cosa ne pensi.
La seconda te la dico così:
In occasione del secondo compleanno di Librini, ti dò appuntamento a un nuovo Silent Book Party: un’ora e mezza di lettura silenziosa del proprio libro accomodati in una delle mie caffetterie preferite di Budapest, per condividere con altri appassionati le giuste vibrazioni letterarie, sorseggiando e smangiucchiando qualcosa di buono in santa pace e gradevole sottofondo musicale.
I posti sono limitati! Se sei a Budapest e desideri partecipare, scrivimi subito commentando questa puntata della newsletter. Puoi anche mandarmi una mail a svevaborla@gmail.com o un DM su Instagram.
Porta il libro, dài, che leggiamo insieme.
Bello!!
Molto bella anche questa puntata!